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“L’inhumaine” di Marcel L’Herbier

Jacque Catelain in L'inhumaine

L’INHUMAINE

di Fabio Matteuzzi

 

L’inhumaine, di Marcel L’Herbier, realizzato nel 1923 e proiettato per la prima volta nel  1924, festeggia quest’anno il secolo di vita.

Quando ci si avvicina a un film così distante da noi nel tempo dobbiamo fare uno sforzo per comprenderlo meglio. Uno dei modi migliori per farlo, oltre a lasciarsi invadere dalla visione del film, ponendosi quindi senza filtri di fronte al film, è di contestualizzarlo approfondendo il periodo storico e culturale in cui è stato pensato e realizzato. Percorso quest’ultimo ben diverso che ci obbliga ad andare oltre la visione, cercando quindi di documentarci meglio che possiamo, in particolare sul periodo e sulle modalità che hanno portato alla realizzazione del film.

L’inhumaine era stato pensato come vetrina dell’arte modernista francese e anteprima dell’Esposizione delle Arti Decorative, che avrebbe avuto luogo nel 1925.”[1]

Per noi, la traduzione italiana del titolo (Futurismo – Un dramma passionale nell’anno millenovecentocinquanta) può essere fuorviante. Può farci credere che L’inhumaine sia un film futurista. In Italia, il futurismo esisteva già da oltre un decennio e si era sviluppato trovando terreno fertile in vari linguaggi artistici, dalla letteratura alle arti visive. Probabilmente, impregnato di modernismo, il film poteva prestarsi ad avere questo titolo, secondo la distribuzione italiana.  L’inhumaine, realizzato in Francia, si situa senza dubbio in un periodo in cui è molto forte l’attività delle avanguardie storiche, dall’impressionismo al dadaismo, dal cubismo all’influenza dell’espressionismo tedesco. C’è in sostanza una compresenza sia nel film sia, evidentemente, nella consapevolezza dei realizzatori del film, certamente di Marcel L’Herbier ma anche dei collaboratori, di questo fermento che coinvolge varie forme artistiche, di reciproche influenze e di spirito di sperimentazione. Da questo punto di vista, L’inhumaine è il film chiave (come scrive Antonio Costa nel suo Il cinema e le arti visive[2]) per capire il rapporto tra il cinema e le avanguardie storiche. Lo stesso L’Herbier disse nella sua ultima intervista nel 1968 “volevamo che [L'inhumaine] fosse una sorta di riassunto provvisorio di tutto ciò che accadeva nelle arti visive francesi due anni prima della famosa mostra delle Arts Décoratifs.”

“Marcel L’Herbier, che considerava il cinema un’arte di sintesi, per questo suo progetto ottenne la collaborazione di alcuni dei più importanti artisti francesi degli anni Venti. L’architetto Robert Mallet-Stevens disegnò gli spogli e astratti esterni della villa di Claire e del laboratorio di Einar, Fernand Léger il laboratorio di ispirazione cubista, i cui ingranaggi rotanti, archi, cerchi e rettangoli avrebbero trovato un’eco nel suo contemporaneo Ballet mécanique. Alberto Cavalcanti disegnò il grande atrio in stile art déco della villa di Claire, dominato da una piattaforma a scacchi bianchi e neri che graficamente si accorda con le uniformi dei domestici. Claude Autant-Lara ideò lo stilizzato giardino d’inverno della villa e la camera funeraria, mentre lo stilista Paul Poiret creò per il personaggio di Claire i turbanti e gli scintillanti abiti a guaina ornati di pelliccia. René Lalique, Jean Puiforcat e Jean Luce realizzarono gli oggetti d’arredo, mentre Pierre Chareau disegnò i mobili e Raymond Templier i gioielli, Jean Dunand si occupò delle lacche e Joseph Casky delle sculture, Djo-Bourgois per i manifesti. Darius Milhaud compose l’accompagnamento musicale al film, oggi perduto. Jean Börlin e i Ballet Suédois appaiono sul palcoscenico del Teatro degli Champs-Élysées prima del concerto di Claire.”[3] In tutto questo, un ruolo importante lo ebbe Alberto Cavalcanti che coordinò questo gruppo di lavoro pur essendo alle sue prime esperienze cinematografiche.

Non dobbiamo peraltro dimenticare che il film è stato realizzato in Francia, ossia nel paese dove il cinematografo è nato, e dove si è sviluppata quella contrapposizione tra cinema legato alla realtà di quanto riprodotto sullo schermo (la cui radice possiamo rintracciarla nei fratelli Lumière) e la manipolazione del tempo e dello spazio, finanche dei corpi (la cui radice è invece legata ai film realizzati da Georges Méliès). Una distinzione che deve essere intesa più come suggestione perché non tiene conto, detta così, di tutte le sfumature che inevitabilmente esistono, basti pensare alla finzione già presente in alcuni film dei fratelli Lumière come L’arroseur arrosé.

Siamo nel 1924, il cinema esiste da poco meno di un trentennio. L’industria cinematografica ha già dato prova, in diversi paesi, di essere forte, e soprattutto di cercare sempre di più delle formalizzazioni che ancora non sono tali da sopprimere, come sarà di lì a poco, con l’avvento del sonoro, gli aspetti più originali e creativi, più artistici e meno commerciali che tutte le avanguardie, storiche e non, hanno nel loro imprinting. Siamo ancora, quindi, in un periodo in cui i cineasti hanno modo di sperimentare le possibilità del cinema, e come il cinema possa ancora, in parte essere inteso come qualcosa da scoprire ed esplorare.

L’inhumaine ha certamente degli elementi futuristi. Giovanni Lista, storico del futurismo ne cita in particolare un paio: il laboratorio dell’ingegner Norsen, interpretato nel film da Jacque Catelain, in cui troviamo le sculture animate di Fernand Lèger; il Jardin d’hiver della protagonista, la diva Claire Lescot interpretata da Georgette Leblanc, realizzato da Claude Autant-Lara.[4]  Potremmo anche aggiungere la presenza, nelle prime sequenze del film, dell’automobile dell’ingegner Norsen e della esaltante velocità di questo nuovo mezzo, inteso non solo come uno strumento con cui muoversi fisicamente nello spazio, tra i luoghi, ma attraverso cui proiettarsi simbolicamente nel futuro.

Tuttavia, il film è tradizionalmente considerato all’interno dell’esperienza del cinema impressionista francese, che copre il periodo 1918-1929. Basti citare a questo proposito la Storia del cinema e dei film di Bordwell e Thompson.[5] L’inhumaine si colloca proprio al centro di questo periodo nei due anni, 1923 e 1924 che sono stati tra i più prolifici dell’impressionismo cinematografico francese (quindici in due anni). Tra l’altro sarà proprio con un altro film di L’Herbier (L’argent) che si chiuderà l’esperienza dell’impressionismo nel 1929, anno in cui venne realizzato anche Finis Terrae di Jean Epstein. Non è un caso, fu l’anno dell’introduzione del sonoro che segnò l’impossibilità di continuare a realizzare produzioni indipendenti.[6]

Il periodo fu importante non solo per la realizzazione di film che poi sono entrati nella storia del cinema, ma anche per una elaborazione teorica in grado di influenzare non solo i film ascrivibili all’impressionismo, che aderivano a questi dettami, ma anche del periodo successivo, in ambito teorico, critico ma anche realizzativo. In particolare, l’elaborazione teorica di un concetto di “fotogenia” che non si limitava al significato corrente del termine ma veniva articolato, come fece Louis Delluc come “qualità che distingueva l’immagine filmica dall’oggetto originale: trasformato in immagine, l’oggetto acquistava una nuova espressività, rivelandosi allo spettatore in una luce totalmente nuova.”[7] Ancora, Kirsanov affermava che “Ogni cosa esistente nel mondo vive un’altra esistenza sullo schermo.”[8] Questo concetto si collegava quasi fatalmente all’idea che fosse la macchina da presa stessa ad avere questo potere, strappando l’oggetto dal suo contesto per trasformarlo, complice l’impatto del bianco e nero e dei fenomeni ottici che le lenti erano in grado di provocare. Quindi, per i teorici impressionisti, lo spettatore cinematografico poteva essere condotto a provare un’esperienza nuova che solo il cinema poteva offrire. Attraverso la macchina da presa e questo concetto di fotogenia lo spettatore poteva sperimentare “l’anima delle cose e l’essenza degli oggetti.”[9]

Ci si allontanava in tal modo da modalità rappresentative precedenti, soprattutto teatrali e letterarie. Si avviava anche una discussione sulla fotogenia che avrebbe attraversato la storia del cinema, in cui l’interpretazione teorica impressionista avrebbe lasciato un segno profondo. Citiamo ancora uno dei maggiori esponenti dell’impressionismo, Jean Epstein: “Che cos’è la fotogenia? Chiamerò fotogenico ogni aspetto delle cose, degli esseri e delle coscienze che accresca la sua qualità morale attraverso la riproduzione cinematografica.”[10]

Nel 1922 era stato realizzato un film che avrebbe cambiato il cinema francese e che dimostrava tutto questo: La roue di Abel Gance. In merito a questo Germaine Dulac disse: “Si può commuovere senza personaggi, dunque senza artifici teatrali: guardate la canzone della rotaia e delle ruote. Un tema, non un dramma. […] La rotaia, una strada di acciaio rigido, inchiodata, la rotaia, quanto di più lontano dalla vita, una poesia le cui rime sono le linee mobili e semplici, che poi si moltiplicano. Mai il cinema è stato, a mio parere, più all’altezza di sé stesso che in questo breve poema dovuto al nostro maestro Abel Gance. Giochi di luci, giochi di forme, giochi di prospettive. Un’emozione intensa dovuta alla visione di una cosa sensibilmente percepita. Poi le ruote, un ritmo, una velocità… Una biella il cui movimento meccanico segue il ritmo di un cuore.”[11]

A monte di tutto questo c’era la convinzione degli autori del cinema impressionista che il cinema fosse una forma d’arte anche se ancora non sufficientemente riconosciuta. Quindi si ponevano come artisti, nei confronti dell’opera e nei confronti degli spettatori mirando a evocare non ad affermare, e a fare provare sensazioni ed emozioni allo spettatore. Attraverso il lavoro dell’arte si doveva arrivare allo spettatore facendogli provare sensazioni ed emozioni, riprendendo in tal modo, in maniera aggiornata, elementi dell’estetica romantica e simbolista, propria della fine del secolo precedente.

Altro aspetto importante dal punto di vista teorico era la considerazione che il cinema fosse la forma d’arte ideale in quanto sintesi di tutte le altre arti. Tutte venivano combinate all’interno del cinema. Questo portò alla considerazione di un cinema non legato alla narrazione, un cinema puro (cinéma pur) basato sull’astrazione dove primeggiavano relazioni visive, grafiche e temporali. Ciononostante, non tutti aderivano a questa idea radicale.

Per quanto riguarda L’inhumaine vale la pena notare come il film presenti aspetti innovativi dal punto di vista visivo ma tradizionali per quanto riguarda la linea narrativa. Il titolo originale del soggetto scritto da L’Herbier su sollecitazione di Georgette Leblanc, che sarebbe stata la protagonista, era La Femme de glace. Donna di ghiaccio, la cui insensibilità viene sintetizzata nel titolo definitivo L’inhumaine, “colei che non corrisponde all’amore di qualcuno.”[12] Georgette Leblanc era stata una cantante, un soprano, molto apprezzata di cui si ricorda soprattutto l’interpretazione della Carmen di Bizet. Sposò il poeta Maurice Maeterlinck. Visse anche negli Stati Uniti e fu proprio al suo ritorno in Francia dagli Stati Uniti che propose a L’Herbier “la produzione di un film capace di attestare le tendenze ‘moderne’ dell’arte francese e dove lei stessa doveva figurare come protagonista”.[13] Dietro questa proposta ci sarebbe stato anche l’interesse di Otto Kahn e di finanziatori americani.

La storia, di per sé è molto semplice e lineare e contrasta con il modernismo degli aspetti visivi e spazio-temporali. Si può dire quindi che proprio partendo da questi aspetti narrativi venivano esplorate le possibilità espressive del cinema dal punto di vista soprattutto figurativo. Siamo quindi davanti a un elemento importante: la storia, la narrazione è solo relativamente importante, in realtà è solo un mezzo attraverso cui l’elaborazione artistica visiva (e anche sonora) assume il dominio.

Molto sinteticamente: la protagonista del film, L’inhumaine è Claire Lescot una famosa cantante circondata da uno stuolo di ammiratori, come ogni diva che si rispetti. Tra questi l’inventore Einar Norsen (interpretato da Jacque Catelain) e il geloso maharaja indiano Djorah de Mopur (interpretato da Philippe Hériat). Tutti gli uomini che gravitano attorno al “salotto” della cantante e che sono presenti alla festa che si svolge nella sua villa sono ossessionati da lei. Per la forte gelosia il maharaja uccide la cantante e Norsen, infine, la fa tornare in vita con uno strumento di sua invenzione.

L’aspetto determinante de L’inhumaine – come già evidenziato – è quindi costituito dall’architettura e dalla scenografia, dalla presentazione degli ambienti, interni ed esterni, dall’utilizzo di tecniche cinematografiche come sovrimpressioni, sfocature, sfruttando tutto ciò che le pratiche di montaggio potevano offrire.

Fondamentale fu appunto la collaborazione di più persone che andarono a costituire un gruppo di lavoro di alto rilievo coordinato da Alberto Cavalcanti.

 

 



[2] Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Torino, Einaudi, 2002, p. 198.

[4] Lista Giovanni, “La componente futurista ne L’inhumaine” in Canosa M. (a cura di) Marcel L’Herbier, Pratiche, Parma, 1985, pp. 148-55. Cfr. Costa, op.cit., p. 200.

[5] Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film, Milano, Il Castoro, 1998, vol. 1, p. 139-143.

[6] A questo proposito, in un’intervista del 1968, L’Herbier disse:

“Quando fu introdotto il sonoro, le condizioni lavorative divennero molto difficili per un regista come me. Per ragioni economiche, era impensabile poter realizzare film come quelli che avevamo fatto nel periodo muto, neanche a spese dell’autore. Bisognava limitarsi notevolmente e adottare forme cinematografiche che, almeno per quello che mi riguarda, avevo sempre disprezzato. Di colpo, grazie al parlato, eravamo costretti a mettere in scena stantii brani di teatro, puri e semplici.” In Fieschi Jean-André, “Autour du cinématographe. Entretien avec Marcel L’Herbier” Cahiers du Cinéma, n. 202, giugno-luglio 1968. Cfr. Bordwell, Thompson, op cit. p. 153.

 

[7] Ibid., p. 143.

[8] Ibid. cfr. Kirsanov Dmitri, “Problème de la photogénie”, Ciné-Ciné pour tous, n. 62, 1 giugno 1926. Curioso: mentre veniva pubblicato questo articolo sulla fotogenia nasceva, a Los Angeles, Marilyn Monroe.

[9] Ibid.

[10] Epstein Jean, “Alcune considerazioni della fotogenia” (1923), in Cinema & Cinema, nuova serie, anno 19, maggio/agosto 1992, n. 64.

[11] In Cinémagazine, 19 dicembre 1924 cfr. Mitry Jean, Storia del cinema sperimentale, Milano, Mazzotta, 1977, p.79.

[12] Canosa Michele (a cura di), Marcel L’Herbier, Parma, Pratiche, 1985, p. 35.

[13] Id. p. 69.

La Palmaverde e il melograno: Bologna, Officina di poesia.

Domenica,  6 marzo 2022, ore 10.

Percorso Poetico

La Palmaverde e il melograno: Bologna, Officina di poesia.

 

Partenza: piazza Giosuè Carducci – Arrivo: Piazza Re Enzo (durata prevista: due ore o poco più).

E’ necessaria la prenotazione alla mail: genova.voci@gmail.com oppure al cell.-whattsapp 340-4070113.

 

In occasione del Centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975), poeta, scrittore e regista.

 

In ricordo di Luca Marconi (Chiari, Brescia, 9 aprile 1960 – Bologna, 16 settembre 2019), musicologo e semiotico.

 

I Percorsi Poetici genovesi nascono a Genova nel 1995, ideati e realizzati da Alberto Nocerino per il primo Festival internazionale di poesia Genovantacinque, che quest’anno si avvia alla 27a edizione. Passati attraverso due associazioni fondate nel 1995 (La Milonga) e nel 2015 (Genova Voci), sin dalle origini i Percorsi – ormai più di venti, a Genova e in Liguria – sono condotti da due guide che si alternano nella lettura di testi in prosa e in poesia, fornendo notizie relative agli autori citati e informazioni storico-artistiche, urbanistiche, sociali, naturalistiche connesse ai luoghi attraversati. Si valorizza così il patrimonio culturale che nel corso del tempo hanno addensato intorno ad essi le parole di poeti, scrittori, viaggiatori, personalità note e meno note, sino a manifestarne, nei casi migliori, il Genius Loci, l’identità più profonda.

 

Tuttavia, questo percorso ha una storia molto particolare.

In primis, è legato strettamente a due amici, studenti del Dams di Bologna nella prima metà degli anni Ottanta, a Alberto Nocerino, da Genova, e a Luca Marconi, da Brescia, uniti negli studi semiotici dalla figura magistrale di Umberto Eco. Per festeggiare la ricorrenza dei 40 anni dalla loro iscrizione al Dams, nel 2019 decisero di provare a riunire gli antichi compagni di studi, proponendo a ciascuno di essi di presentare agli altri in forma possibilmente gradevole quel che di più importante avevano combinato in quattro decenni. Data la lunga esperienza genovese dei Percorsi, per Nocerino fu naturale proporre a Luca Marconi di costruire insieme un Percorso letterario dedicato a Bologna, lavorandoci durante l’estate. Purtroppo Luca non fu in grado di farlo, ad agosto interruppe qualunque attività e il 16 settembre pose fine alla propria vita.

 

Più di due anni sono trascorsi dalla scomparsa di Luca e, grazie al fondamentale contributo degli amici, alla fine il percorso bolognese in sua memoria ha preso forma ed è pronto per essere realizzato domenica 6 marzo, in coincidenza con il Centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini (nato il 5 marzo 1922), qui a Bologna, in via Borgonuovo 4.

Il Percorso si è quindi sviluppato per l’occasione, seguendo le orme di Pasolini per i principali luoghi che lo riguardano nel centro storico della città.

Ma non sono affatto trascurati tutti gli autori che l’itinerario dà modo di ricordare, da Carducci, in partenza, a Dante, sotto la Torre Garisenda a cui il Sommo Poeta dedicò il primo sonetto… e Pascoli, Tasso, Campana, Leopardi, Olindo Guerrini, i futuristi, le osservazioni di viaggiatori ‘stranieri’ come  Montaigne, Goethe, Byron, Stendhal, Ruskin… Senza dimenticare i versi dei più noti cantautori di scuola bolognese, Guccini, Lolli, Dalla… di cui Luca Marconi, docente di Storia della popular music all’Università di Pescara, si occupò in tante occasioni.

 

Anche se non comuni, esistevano esperienze simili ai Percorsi ideati a Genova a partire dal 1995, antecedenti e contemporanee. Ad esempio i tour dedicati ai grandi scrittori in Europa, la Praga di Kafka, la Dublino di James Joyce, la Parigi di … tutti gli infiniti autori che vi hanno vissuto e soggiornato.

In Italia si può ricordare quanto creato nei primi anni Novanta da Stanislao Nievo con la Fondazione in memoria del prozio Ippolito, per valorizzare i luoghi delle Confessioni di un Italiano, al Castello di Colloredo di Monte Albano (Udine). Da lì, nacque l’idea di istituire i Parchi Letterari, diffusi ormai in tutta Italia. Ad esempio, oggi in Liguria si trovano: a Levante, il Parco Culturale Giorgio Caproni in Val Trebbia, il Parco Montale a Monterosso, il Parco del Golfo del Tigullio, del Golfo dei Poeti (Lerici), della Val di Magra e della Terra di Luni; a Ponente, nella Riviera delle Palme e al confine con la Francia.

 

Ideazione di Luca Marconi e Alberto Nocerino.

 

Elaborazione del testo e realizzazione del percorso a cura di Valentina Betti, Chiara Fumagalli, Fabio Matteuzzi e Alberto Nocerino.

 

Organizzato da Genova Voci. Associazione di promozione sociale, in collaborazione con il Centro Studi-Archivio ‘Pier Paolo Pasolini’ e Fuorivista. Cinema e multimedia.

 

 

Keith Haring: Street Art Boy

Keith Haring dipinge Grace Jones

Keith Haring: Street Art Boy

dir. Ben Anthony, Regno Unito 2020 (52 min)

 

In occasione del trentennale della morte di Keith Haring, Ben Anthony ha realizzato questo documentario dedicato alla vita e alle esperienze artistiche di Haring, che è anche una rivisitazione dell’epoca e dell’ambiente in cui Haring si è formato e poi si è fatto conoscere al mondo.

Il modo in cui Anthony affronta il suo tema è cronologico. Si prende le mosse quindi dalle

testimonianze dei genitori, sulla cittadina in cui la famiglia Haring abitava, Kutztown, una cittadina dormiente, in cui non accadeva niente, una cittadina senza graffiti, passando quindi alle testimonianze dell’amico Kermit Oswald. La loro amicizia, le passioni comuni, l’attivismo in un periodo in cui accadevano cose terribili come la guerra in Vietnam. Poi un improvviso interesse di Haring nei confronti del Jesus Movement, inteso più che altro come il desiderio, ancora informe, ma intenso, di fare parte di qualcosa.

A questo fa seguito il lavoro all’Arts and Crafts Center, a Pittsburgh, dove ha modo di vedere la retrospettiva di Pierre Alechinsky con cui trova un’affinità artistica. Da qui, bruciando i tempi, Haring lavorerà alla sua prima esposizione, a soli 20 anni, nel 1978.

Affiorano frasi che inquadrano già perfettamente una consapevolezza che cresce in fretta, istintivamente e razionalmente, in Haring, quando dice, per esempio: “Sapevo di dovere andare a New York”, dove la mitica Grande Mela è vista come l’unico posto in cui è possibile sfondare se si vuole fare ciò che lui voleva fare. E quello che voleva fare era nientemeno che un nuovo tipo di espressione artistica che fosse vicino alla gente. Portare l’arte là dove vive la gente, o dove pensa di farlo.

Ciò che Haring cerca è dunque una intensità di attività artistica e di vita: le due cose sono legate a cui segue la lenta comprensione della propria omosessualità e la ricerca di una scuola in cui potere approfondire le proprie passioni artistica lo porta alla SVA (School of Visual Arts).

Anthony , nel suo film, articola varie testimonianze tra cui ricordiamo quella di Kenny Scharf sulla New York degli anni Settanta e Ottanta, di Ann Magnuson che ricorda la bancarotta del 1978, anni difficili per New York, edifici abbandonati e diffusa criminalità, mentre dal punto di vista artistico c’era una forte diffusione di musica punk e del cinema underground. New York era il posto in cui le cose potevano accadere, dunque il posto in cui dovere essere.

Haring si cimenta anche con i video quali “Tributo a Gloria Vanderbilt”, ma per lui è importantissima anche la musica, anche come stimolo di esperienza artistica, i “Devo” su tutti: ascolta “Rock Lobster” dei B-52 mentre disegna fino a 20 ore di fila. Haring disegna in continuazione, lo ha sempre fatto, su tutto quello che trova a disposizione, non può smettere, vive per quello. Quando non disegna, vive le esperienze che una città piena di fermento culturale giobanile può offrire: “Nessuno nell’East Village aveva il televisore. Il nostro divertimento era uscire ogni sera. “ afferma Drew B. Straub, suo compagno di appartamento, il club 57, un modo per andare a Hollywood senza essere a Hollywood, e la vita, la vita artistica che voleva essere a contatto con la gente, rifiutando di essere elitaria.

“Cercavo ossessionatamente di capire perché sono un artista, o, se lo sono, perché lo sono”.

Le strade di New York e il fascino dei graffiti sui vagoni, all’esterno e all’interno, da ricoprire completamente le carrozze della metropolitana. “La competizione era con la pubblicità in un certo senso”

Poi l’incontro con Juan Debose, con cui stringe un rapporto profondo, il successo mondiale, l’apertura di Pop Shop nel 1986, primo negozio in cui saranno vendute opere pop art, avvenuto dopo avere fatto conoscenza di Andy Warhol e della sua concezione di arte come mercato. In questa vita, in quella di Haring, dei suoi amici, e in tutto il mondo fa irruzione, improvvisamente, la diffusione di qualcosa di inaspettato, l’AIDS. Dopo la diagnosi di essere affetto da AIDS, dopo la morte di Debose, Haring continua tuttavia a lavorare senza sosta, fino all’ultimo momento.

Realizzato in occasione del trentesimo anniversario della morte di Keith Haring questo documentario non vuole essere solo celebrativo, ma un modo per fare conoscere un’artista che rimarrà giovane per sempre, legando la sua carriera artistica all’ambiente newyorchese underground degli anni Ottanta.

(Fabio Matteuzzi)

La soglia dello sguardo da Hitchcock a Simenon

Grace Kelly e Raymond Burr in "La finestra sul cortile"

 

di Fabio Matteuzzi

 

“Negli ultimi anni della prolifica vita di scrittore di Georges Simenon, quando aveva già pubblicato quasi 400 romanzi,  Alfred Hitchcock raccontò di avergli telefonato, solo per essere informato dal segretario di Simenon che non poteva essere disturbato perché aveva appena iniziato una nuovo romanzo, Hitchcock, sapendo che Simenon era capace di scrivere un romanzo – o due o tre – ogni mese, rispose: ‘va bene, aspetterò′ “.
(Estratto dalla recensione di Deirdre Bair “Simenon, una biografia” di Pierre Assouline, The New York Times)

 

Georges Simenon scrisse, all’inizio degli anni Quaranta La finestra dei Rouet, pubblicato solo nel 1945, a guerra terminata. Recentemente, l’editore Adelphi, proseguendo nel progetto editoriale di pubblicazione dell’opera omnia di Simenon, ha pubblicato l’edizione italiana con la traduzione di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio.

Troviamo, come sempre in Simenon, una forte caratterizzazione di tutti i personaggi; anche quelli di sfondo sono precisamente delineati, quasi scolpiti in una vicenda in cui il tempo sembra scorrere lentamente e i luoghi delineati molto chiaramente, al punto che ci troviamo in spazi limitati e ristretti e non è più possibile parlare di orizzonte. Le coordinate spazio-temporali, e infine narrative sono quelle che la protagonista, Dominique, costruisce e subisce. Il mondo di Dominique è totalmente interiore. Dal suo appartamento, reso ancora più piccolo dal fatto che ha ceduto una camera in affitto a una giovane coppia, osserva il mondo esterno. Ma il suo non è un semplice osservare, una semplice visione, è una vera com-partecipazione, l’anticipazione delle cose che stanno succedendo. E’ talmente presa dalle cose che vivono intorno a lei che è la sua stessa vita a trarre linfa dalla vita altrui. In particolare Antoinette, sposa del figlio dei signori Rouet, così diversa da lei, così esuberante. Tuttavia solo essa conosce -  sembra conoscere – così a fondo i segreti che turbano Antoinette. Antoinette che non fa nulla per salvare il marito quando questi, nella stanza accanto ha una crisi cardiaca. Antoinette tiene in mano il bicchiere con la medicina che potrebbe salvarlo, fino a quando il parossismo della crisi lo uccide. Solo allora lei prova imbarazzo, poi fa sparire la medicina versandola in un vaso. Dominique vede tutto, ha sempre visto tutto, ormai è esperta nel carpire non solo le parole, ma i pensieri di chi le vive di fronte, sconosciuti senza segreti. Dalla sua postazione poteva vedere attraverso una finestra Antoinette con il bicchiere in mano, attraverso l’altra il marito che stava avendo la crisi fatale.

Nella penombra della sua stanza, della sua vita, Dominique riesce a fantasticare, a sentirsi vivere, solo quando osserva il suo corpo riflesso nello specchio, incorniciato nel contorno dello specchio, come incorniciate sono le altre vite, oltre le rispettive finestre, al di là delle porte, visibili attraverso la sagoma del buco della serratura. Le visioni rubate ai vicini la turbano, ma di fronte allo specchio, mentre tocca il proprio corpo nella penombra, il turbamento si unisce a una sorta di conforto. In quei momenti sospesi, quando il proprio corpo le appare riflesso dallo specchio, contenuto nello specchio, quasi si stupisce di avere un corpo tutto suo, tale da poterlo sentire, accarezzandolo e stringendolo con le mani, accorgendosi come, nonostante abbia già quarant’anni, sia ancora fresco e vivo, come se non fosse mai cambiata, come fosse ancora giovane. Anche il suo corpo desidera, ma il desiderio viene, come sempre represso. Scruta il suo corpo come una qualsiasi delle persone che vivono fuori, in quel mondo che lei riesce ad abbracciare con lo sguardo e con un proprio acuto sentire. Tutti i sensi sono allora vigili, per cogliere qualsiasi cosa possa fornire un ulteriore tassello di quel mosaico di cui lei, sempre di più, non può fare a meno.

I confini del mondo di Dominique sono quelli dei suoi pensieri, della propria casa, e di ciò che può vedere dalla finestra. Sola, senza famiglia, senza i genitori, morti da tempo, ma di cui continua ad aleggiare la presenza, soprattutto quella dell’autoritario padre generale che continua a osservarla dal dipinto appeso alla parete, senza amicizie e senza lavoro, Dominique affitta la stanza a una giovane coppia. Ne assorbe la vita, così come fa con tutti i vicini di casa su cui posa lo sguardo con intensità, per abitudine, per necessità, intuendone in anticipo i gesti, le parole, le intenzioni. E’ attenta alle voci, alle risa, ai bisbiglii, all’intonazione della voce, ne interpreta le intenzioni, ma al centro c’è lei stessa, sensibile a qualsiasi lieve intonazione possa farle percepire una riferimento a lei stessa, fino a percepire i sorrisi: “Sorridevano al pensiero della loro padrona di casa spogliata. Perché? Con che diritto sorridevano? Cosa sapevano di lei?” (p. 145)

Per Dominique sentire la vita accanto, non dentro di sé, non è cosa nuova, ma esperienza che le è sempre appartenuta. Così quando ricorda – durante il corteo funebre di Hubert Rouet – eventi ormai lontani nel tempo, Simenon, improvvisamente tornando al presente, la inchioda a una chiosa che non ammette discussioni: “La colpiva tutto ciò che significava vita, anche Lina, la sua affittuaria, e spesso passava ore a lottare con se stessa, attratta da quella porta che le separava, da quella serratura attraverso cui potere guardare.” (p. 43)

Da un lato, va subito anticipato, la lettura del romanzo di Simenon, conduce, chi l’ha visto e apprezzato,in maniera inevitabile, all’ambientazione de La finestra sul cortile, il film realizzato da Alfred Hitchcock nel 1954, tratto a sua volta da un racconto di Cornell Woolrich. I legami tra le due opere sono forti all’apparenza, in realtà si fermano alla definizione di un mondo chiuso e all’oscillazione tra realtà e fantasia di cui entrambi si nutrono, tuttavia, come vedremo, in forme affatto diverse.

L’osservazione da lontano dei dirimpettai – da parte di Dominique – ma anche delle persone che abitano la sua stessa casa, di ciò che la circonda, pur presentandosi sotto il senso della visione, comporta in realtà una profonda attenzione e partecipazione di tutti i sensi: udito, tatto, odorato e, sì, anche gusto. Simenon, peraltro, è scrittore sempre attento anche a questi aspetti, che ritroviamo riccamente seminati nei suoi libri. Ciò che colpisce i sensi libera quel rapporto tra presente e passato in cui la memoria torna e quasi soggioga il presente. Un profumo fa riemergere un vissuto antico che ora sovrasta e cancella, sia pure per brevi istanti il presente lasciandola tramortita e inadeguata all’attimo che sta vivendo. Dominique non solo è conoscitrice di profumi riconoscibili, ma anche di quelli non descrivibili, che sono per lei precisi ed evocatori, da avere quasi una valenza “semantica”. Così lei, fin da bambina conosceva “l’odore delle strade all’alba”. Così il funerale di Hubert Rouet prosegue tra ricordi improvvisi, balzi di attenzione, segnati da elementi che vanno a turbare e dirigere i sensi in un altro tempo e luogo, facendosi invadere da ricordi e da un presente distorto: “Inconsciamente, Dominique si abbandonava con una sorta di voluttà al suono dell’organo, al profumo dell’incenso che le ricordava l’infanzia e le messe mattutine della sua fase mistica.” (id.) (..) “Subito dopo qualcosa la colpì, per un attimo si chiese cosa fosse, annusò l’aria e riconobbe, misto all’odore greve dell’incenso, il profumo delicato che Antoinette Rouet lasciava dietro di sé.” (p. 45)

Siamo a un funerale dove l’attenzione è distratta. E’ uno dei rari momenti in cui Dominique si trova all’aperto. Non è il suo mondo, lo si capisce. E’ talmente vicina alle persone e alle cose che non riesce a vederle davvero, o meglio non riesce a vederle oggettivamente, né attraverso quella distanza che la rende onnisciente come quando osserva il mondo dalla finestra o dal buco della serratura. Questo aspetto confuso tornerà, drammaticamente, in una sorta di preludio alla fine del romanzo, quando Dominique sarà abbordata per strada, da uno sconosciuto. Sono gli altri sensi, in questo caso in particolare l’odorato, che la guidano, o meglio la isolano tra la folla, offrendole fantasie in cui, suo malgrado, si abbandona, per quanto lontane e spiacevoli possano essere. Infatti è solo una volta tornata a casa che “Aprendo la finestra, Dominique accolse con sollievo lo spettacolo offerto dalle stanze di fronte..” (p. 45) E’ tornata a casa. E’ di nuovo a suo agio: nell’ambiente che conosce; qui può tenere a distanza il mondo, qui può vedere senza che gli altri la vedano. Gli altri non sanno neppure della sua esistenza. Frapporre una finestra, una particolare forma di barriera, mettere in cornice la vita degli altri e assorbirla. In altri termini, forse un po’ brutali, è solo quando Dominique torna a vedere – a fare prevalere il senso della vista sugli altri – che prova paura. E’ con la vista che riesce a tenere a distanza e ad avere le cose sotto controllo.

Ogni tanto, anche Dominique deve uscire. Non lo fa per scelta, non perché le piace, per un desiderio, per la leggerezza di una passeggiata, bensì per ubbidire a qualcosa dentro di sé che la spinge a farlo. Fuori si trova a disagio. E’ inquieta. Spesso anche quando esce non sa slegarsi dal senso della vista, non sa fare a meno della dittatura di un desiderio a cui la vista presta i suoi mezzi. A volte lo fa per seguire Antoinette, di cui scopre una relazione con un uomo, cosa che sapeva già, o che intuiva, oppure per seguire il signor Rouet, le sue inattese scappatelle all’insaputa della moglie. Un pezzo del mondo che osserva dalla finestra se ne va per la città e lei lo segue, per paura di perderlo, per sapere ancora di più sulla vita di chi ormai fa parte della propria, ne ha sostituito la parte più aperta all’esterno, la parte che può fare a meno del suo sguardo. Senza di loro è perduta. Senza di loro è preda degli altri sensi, che non sa governare, che implicano una maggiore vicinanza agli oggetti, alle persone, immergendola in un mondo che non sa vivere, perché non è mai stato il suo, nessun mondo, al di là della sua casa. A dire la verità fa anche un viaggio lungo, per partecipare a un altro funerale, questa volta di una zia. I parenti riuniti per l’occasione sono ormai estranei, alcuni fatica a riconoscerli mentre lei non sembra cambiata. “Nique non è cambiata! Nique non è cambiata! Glielo ripetono come se fosse l’unica della famiglia ad avere sempre avuto la stessa età, quarant’anni, come se fosse sempre stata una zitella.” (p. 139)

In esterno il mondo non è più ordinato e conosciuto, ma confuso, impossibile da contenere con lo sguardo: “Le macchine e gli autobus, le luci e la folla, una specie di fiumana da attraversare, da sfiorare, l’angolo di una strada da svoltare di volata e, passata una salumeria, una soglia da varcare, una targa di marmo nero con una scritta storta, un corridoio stretto che odorava di liscivia.” (p. 148) Tutti dettagli che non si risolvono in una immagine compiuta, frammenti inutili di un mondo che Dominique si trova ad affrontare senza conoscerlo, senza strumenti per controllarlo.

E’ solo verso la fine del romanzo, quando il suo personaggio è stato minuziosamente costruito che Simenon si permette di affermare: “Così, anche quella mattina, Dominique viveva per metà nella realtà presente e per metà di immagini di altri tempi.” (p. 163)

Ma quello è un giorno particolare, il giorno in cui tutto, inaspettatamente, per Dominique finirà. Quella che appare una scelta di Dominique, quella di uscire di casa, frettolosamente, per cercare Antoinette, per le strade della città in realtà risponde a una differente urgenza. Non c’è scelta, perché non c’è riflessione. La mattina Dominique si impegna nelle faccende domestiche, e già presagisce con timore cosa la attenderà quando avrà concluso i lavori casalinghi. Alle tre di pomeriggio ha già terminato tutto e diventa preda di quella che possiamo senza troppo indugio definire “accidia”, ma c’è, inspiegabilmente rapido, improvviso, il rifiuto di questo sentimento. Qualcosa si impossessa di lei, la spinge fuori per il mondo. Sembra essere preda di una forza a cui non sa opporre resistenza e che la farà perdere. Dominique teme questo momento. Lo ha già provato. E’ verso le tre del pomeriggio che tutto questo diventa insostenibile

“Alle tre aveva finito di dare la cera ai mobili.

Sapeva già che cosa stava per succedere, almeno quello che sarebbe successo nell’immediato.

Quando non avrebbe avuto più niente da fare, quando con un gesto rituale avrebbe posato sul tavolo la cesta delle calze, quando la luce avrebbe incominciato a farsi livida, si sarebbe impadronita di lei un’angoscia che aveva imparato a conoscere.” (p. 166) Poi quello che temeva (forse) accade: “Si era appena riseduta, stava per infilare in una calza l’uovo di legno verniciato, quando il richiamo divenne irresistibile, e lei si vestì, evitando di guardarsi allo specchio.” (p. 166) Dominique viene dunque rapita da un bisogno che la rende inquieta: un “richiamo”. Ora e per sempre perde il controllo di se stessa. Diventa letteralmente accecata. Esce nel mondo, come spinta da un demone interiore, un vero e proprio “demone meridiano” non è la prima volta [“Già una decina di volte, forse anche di più, era arrivata fin lì, con quella sua figura minuta, i nervi tesi..”p. 167), ma in questo caso si aggira senza meta come un animale. Sempre in quest’ora pomeridiana, le tre del pomeriggio, all’inizio del romanzo Dominique aveva provato un altro turbamento.

 

Ben diversa la situazione che si vive dalla finestra di un altro cortile, quello hitchcockiano (La finestra sul cortile). Il racconto di Cornell Woolrich da cui è tratto ha questo incipit: “Non conoscevo i loro nomi. Non avevo mai udito le loro voci. Per essere esatti, non li conoscevo neppure di vista, perché mi era impossibile, da quella distanza, distinguere bene i lineamenti dei loro volti. Eppure, avevo ricostruito l’orario dei loro movimenti, delle loro attività quotidiane. Erano tutti miei dirimpettai, dalla parte del cortile.” (“La finestra sul cortile”, in a cura di Gian Franco Orsi, Il delitto secondo Hitchcock, Milano, A. Mondadori, 1979, p. 11). La distanza (e non il distacco come in Simenon) e già qui una lontananza, esattamente l’inverso di quanto accade a Dominique. C’è bisogno allora di un mezzo artificiale, binocolo o teleobiettivo (Hitchcock) per avvicinare di più le cose. Si tratta di due visioni differenti, la prima (Simenon) strumento di compartecipazione a una vita esterna, la seconda (Woolrich-Hitchcock) strumento per una possibile detection. “Le lenti riuscivano a seguirlo fino nell’interno della casa dove fino a quel momento i miei soli occhi non avevano potuto penetrare.” (p. 36) Man mano che spunta e si modella il sospetto di un omicidio, la vista è sempre più acuta e si perfeziona (attraverso protesi come il teleobiettivo) fino a cercare con la sola vista più di quello che la vista può dare: “Dio, come osservavo la sua espressione. I miei occhi aderivano ad essa come sanguisughe. (p. 36) Descrizione che – con tutte le differenze del caso si avvicina comunque a quella simenoniana di Dominique: “fingeva di non vedere niente intorno a sé, eppure si appropriava come una ladra della vita che le scorreva accanto.” (p.167) Ma a Jeff, il personaggio hitchcockiano, interessa fino a un certo punto la vita degli altri, o almeno, dall’interesse professionale (è un fotografo) questo si traduce in una detection guidata dal sospetto che un suo dirimpettaio possa avere ucciso la moglie, il suo sguardo registra, ma seleziona, al contrario di quello di Dominique che invece accumula nutrendo la sua vita delle esistenze degli altri.

Ne La finestra sul cortile, la vista è il senso principe, e tuttavia non basta, anche lo sguardo può arrivare solo fino a un certo punto e ha bisogno di un avvicinamento artificiale. Tuttavia anche qui ci sono momenti in cui la vista viene necessariamente integrata: “A volte, i sensi captano cose senza che la mente le traduca nel loro giusto significato, I miei occhi videro quello sguardo. La mia mente rifiutò di analizzarlo come doveva.” (p. 46) Più che di sensi si tratta di intuizioni, di associazioni alimentate tuttavia dallo sguardo. Più ancora del film di Hitchcock il testo di Woolrich è rivelatore. Davanti ai suoi occhi si è svolta una scena in cui ha percepito qualcosa di stonato, qualcosa di misterioso e importante che cerca disperatamente di recuperare nella memoria, ma “La mia memoria, senza l’aiuto delle immagini, non era in grado di ricatturare quel particolare stonato.” (p. 38-9) L’occhio di Woolrich, come quello di Hitchcock domina e organizza il mondo, non per parteciparvi (come Dominique) ma per trovarvi l’errore e porvi rimedio. “L’occhio è un controllore fidato” (p. 48) dice Jeffries, e se pure questa frase così lapidaria potrebbe essere sottoscritta anche da Dominique, il senso della loro “passione” visiva è estremamente differente. In Woolrich-Hitchcock, laddove lo sguardo non arriva c’è pur sempre la protesi del cannocchiale o del teleobiettivo, per Simenon è un sopravvenire di tutti i sensi ad annebbiare la vista, ma nel momento in cui Dominique si affida all’odorato, al tatto, all’udito per muoversi, ecco che si perde, non sa controllare gli altri sensi come controlla le cose e la propria vita, o quella altrui, attraverso la vista.

Nel momento di noia, di vera e propria accidia, Jeffries si trova un’ulteriore occupazione, lega il proprio sguardo, la propria memoria e la razionalità in un unicum attraverso una detection sotterranea, nascosta. Dominique invece, vi si abbandona, segue il suo demone perdendo ogni razionalità ogni controllo, la vita di tutti i vicini appare lontana e sfilacciata e così la sua perde consistenza e definizione. Non accettando ciò che gli altri sensi le offrono (la vita) non può che fare una scelta estrema e tutto sommato, inaspettata.

In realtà il personaggio di Dominique ha molto a che vedere con altri personaggi simenoniani, o perlomeno la loro solitudine, l’ambientazione, la normalità delle loro vite, come, per esempio il signor Hire (Il fidanzamento del signor Hire) che osserva di nascosto, da dietro la finestra, la domestica Alice che si spoglia, personaggio che a sua volta è spiato. Oppure, Adil Bey, il personaggio di Le finestre di fronte, e l’intensità presente in Maigret e il fantasma. Poi la presenza di quel mondo chiuso, apparentemente rassicurante quale il cortile, sia nei libri citati, sia in altri, che torna come una costante, luogo di incontro di ciò che è familiare e di ciò che è estraneo. Uno spazio comunque attraversato, fatto proprio nonostante tutto, in cui vengono conservati inalterati quei rapporti e quelle distanze che Hitchcock, nel suo film, illustra con precisione, mantenendo i personaggi ognuno al suo posto, nel proprio appartamento, come faranno alla fine Jeffries e Lisa, che lasciamo soli, finalmente con le tende abbassate, il mondo fuori, una volta per tutte.

Kevin. Will my people find peace?

di Fabio Matteuzzi

 

Kevin Doris Ejon

Kevin Doris Ejon

Il documentario è una modalità cinematografica in cui facilmente il giornalismo può intrecciarsi con il cinema. La ricerca con la storia, il passato con il presente.
Elisa Mereghetti e Marco Mensa hanno realizzato, assieme alla giornalista ugandese Kevin Doris Ejon, un documentario su uno dei tanti argomenti drammatici del continente africano.
Come si può affrontare un insieme di fatti così drammatici come quelli che riguardano le violenze e le atrocità commesse dall’LRA (Lord’s Resistence Army) di Joseph Kony in un paese come l’Uganda guidato ormai dal 1989 da Yoweri Museveni? Attraverso le voci dei testimoni, attraverso i loro ricordi, fino a quando l’intensità delle testimonianze diventano troppo forti e dolorose ed è necessaria una pausa nel racconto. Saggiamente – potremo dire – gli autori scelgono questa strada, quella della riflessione, quella attraverso cui si deve e si vuole guardare al futuro cercando una possibile riconciliazione, cercando di andare oltre le violenze di anni, il rapimento di bambini e bambine facendone strumenti di morte o schiave sessuali. Una riflessione che non investe solo chi questi fatti li ha materialmente compiuti, che rimangono i grandi assenti, ma che investe una società che guarda con timore, sospetto e paura a quei bambini e a quelle bambine che hanno vissuto loro malgrado con i loro rapitori e che, riusciti a fuggire, sono riusciti a tornare nelle loro comunità, che tuttavia non sa nuovamente accoglierli.
Le domande che questo film si pone e ci pone sono antiche e attuali, non rivolte alle cause di tutto ciò che è accaduto, ma come dopo, le violenze, dopo l’odio, dopo le guerre, le persone possano e debbano ricominciare una vita comune. Quindi si parla del presente e del futuro, e ciò è valido per i capi di stato come di qualsiasi individuo di una società.
Kevin è anche un film al femminile. Non solo perché segue il percorso di una giovane giornalista africana, una delle pochissime persone ad avere incontrato Kony e ad averlo intervistato, ma anche perché molte voci che offrono la loro testimonianza di fatti accaduti nelle aree rurali sono di donne che sono state direttamente o indirettamente coinvolte. Le capacità e il coraggio della giovane giornalista ugandese si incrocia con le vicende delle donne e dei fatti da esse narrati. Come accennavo sopra, quando si raggiunge un apice nel racconto delle protagoniste, il film quasi si ritrae, lascia tempo allo spettatore per non essere pervaso troppo dalla tensione, la testimonianza si ferma, l’immagine mostra un campo vuoto, viene inserito uno iato temporale di attesa nell’intento che qualcosa si stemperi, che le parole affidate allo schermo provochino una riflessione o almeno che siano accolte, non immediatamente cancellate da altre.
Ora non è che con un film si possa riuscire a capire un continente come quello africano, magari neppure la realtà territoriale di cui si parla, ma senz’altro riusciamo a infilarci in una fessura che ci fa capire quanto terribili e fortemente intrecciate sono le problematiche dei paesi africani, quanto forte possa comunque essere il legame politico con il mondo occidentale, ma anche quanto necessaria la comprensione di drammatici fatti recenti e il loro superamento. La riconciliazione, evocata, attesa e tuttavia insoddisfacente perché le ferite rimangono comunque, è un passaggio politico e sociale a cui non si può rinunciare. Quello che comunque emerge è la testimonianza di chi è stato e di chi continua a essere vittima: vittime delle atrocità dell’LRA, ma vittime anche di una società che non ti accetta più. Il film segue dunque queste voci, queste testimonianze, questi sguardi in una calma spossata che desidererebbe un futuro, attraverso la presenza di Kevin Doris Ejon. Un’empatia mediata che non si trasforma in vertigine e non si riduce al distacco. Il film cerca un equilibrio dichiarandosi atto cinematografico e giornalistico comprendendo bene, tuttavia, che la vicinanza alle persone che raccontano parte delle loro vite, può arrivare solo fino a un certo punto, può essere un mezzo che a sua volta deve adeguarsi all’enormità di ciò che vuole raccontare.

GUZMÁN VINCE A BOLOGNA IL BIOGRAFILM FESTIVAL 2015

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Di Jessika Pini.

Nel suo ultimo lavoro El botón de nácar (Il bottone di madreperla), Orso d’argento alla Berlinale 2015 e miglior film del concorso internazionale al Biografilm festival 2015, Patricio Guzmán torna sul tema dei desaparecidos cileni sotto la dittatura di Pinochet e li lega a un’altra sparizione coatta nella storia del Cile, quella dei nativi sudamericani della Patagonia per mano dei colonizzatori.

“Il soggetto di un documentario, ovvero i suoi punti d’interesse, sono già scritti  ‒ afferma il regista cileno nel corso del film intervista Filmer obstinément, rencontre avec Patricio Guzmán (2014) di Boris Nicot, proiettato anch’esso al Biografilm ‒. Gli elementi si dispongono davanti al regista come le mummie agli archeologi, con tutto il loro carico di cultura e di storia; compito del regista (e degli archeologi) è intuire la relazione tra le parti e descriverne il legame. Descrivere è l’aspetto più difficile della realizzazione di un documentario”.

Per tracciare il legame tra desaparecidos e indigeni Guzmán ha utilizzato l’acqua, quell’elemento da cui tutti proveniamo e che sancisce l’origine paritaria dell’umanità, ma che nell’uso dell’uomo diventa strumento di confinamento. Cimitero per i 1.400 corpi che il governo di Pinochet ha gettato nell’Oceano, legando loro al petto un pezzo di rotaia perché sparissero nelle profondità delle acque senza il rischio che lasciassero alcuna traccia del loro destino. Invalicabile barriera d’isolamento per le popolazioni indigene che dall’acqua traevano il sostentamento, quando i coloni vietarono loro di navigare oltre una certa distanza dalla costa.

L’acqua però è stata capace di conservare la memoria: incastonato su uno di qui pezzi di rotaia ormai arrugginita e coperta di elementi marini è rimasto un bottone di madreperla, la prova della tragedia di Marta Ugarte e degli altri desaparecidos. “Continuerò a lavorare fino alla morte perché la memoria del mio paese non vada persa. ‒ dichiara il regista nell’incontro con il pubblico del Biografilm ‒. Ricordare è necessario indipendentemente da quanto tempo è passato: gli indigeni sono morti 200 anni fa, ma nessuno ha mai raccontato cosa è successo. Dal colpo di stato sono passati quarant’anni e oggi il Cile è un paese prospero, ma con grandi problemi nel relazionarsi con la propria storia; si tende a non voler ricordare e questo rappresenta un rischio per il suo futuro”.

 

El botón de nácar è il secondo film di una trilogia di documentari dedicati ai desaparecidos e al tema della memoria del Cile sul proprio passato. Nel primo, Nostalgia de la luz (2010), Guzmán riflette sulla memoria da un originale punto di osservazione, il deserto di Atacama, dove gli archeologi cercano i resti delle civiltà precolombiane e insegnano alle famiglie dei desaparecidos come cercare i resti dei propri cari. Il terzo capitolo sarà incentrato invece sulla Cordigliera delle Ande: “Lungo gli oltre quattromila chilometri di montagne che separano il Cile dal resto del mondo vivono gli abitanti indigeni e voglio capire cosa pensano del passato e di quel passato cosa pensano i cileni”, spiega il regista.

Sia El botón de nácar che Nostalgia de la luz saranno distribuiti in Italia da Andrea Cirla alla fine del 2015 inizio 2016. El botón de nácar sarà visto in Cile il prossimo 20 settembre a Santiago nell’ambito di un festival di cinema documentario e poi verrà distribuito in tutto il paese.

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Il cortometraggio fantasma: “Il ballo delle ingrate”, di Ingmar Bergman

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 di Fabio Matteuzzi

 

 

A quanto mi risulta, per molto tempo in nessuna filmografia di Ingmar Bergman è stato citato il cortometraggio Il ballo delle ingrate (De fördömda kvinnornas dans), girato in bianco e nero nel 1976, neppure nelle più accurate, come ad esempio quella, pur ricca, contenuta nell’autobiografia dello stesso Bergman, Immagini.(1)
Il ballo delle ingrate presenta interessanti peculiarità. Tra queste una è particolarmente evidente e guida le motivazioni registiche e coreografiche del film.
Il ballo delle ingrate dura complessivamente 24 minuti. Nell’arco di tale durata il nucleo portante del film (le sequenze in bianco e nero, contrapposte alla presentazione e all’intermezzo, girati a colori) è proposto due volte alla visione dello spettatore. Non si tratta, tuttavia, di una mera ripetizione. Non può esserlo per almeno due motivi. Uno congenito, per così dire, l’altro dovuto a una serie di contestualizzazioni fornite solo prima della seconda proiezione.
È noto che qualsiasi seconda visione contribuisce ad arricchire lo spettatore di una maggiore conoscenza dell’opera. Tuttavia non intendo qui disquisire su un principio ormai largamente accettato.(2) Intendo piuttosto richiamare l’attenzione ai diversi presupposti che ci vengono dati, all’interno stesso de Il ballo delle ingrate, prima della proiezione dei due pezzi “uguali”, stabilendone quindi criteri per la comprensione, una nuova posizione dello spettatore, meno passiva di fronte alle immagini che si susseguono sullo schermo. Ammesso che non sia sufficiente, di per sé, la proiezione a dar vita al materiale filmico, il cui grado di amorfismo è forse solo apparentemente (grazie al movimento) minore a quello di un dipinto o di un testo scritto che debbono essere vivificati dall’interpretazione/partecipazione, quindi di un uso, tuttavia l’operazione compiuta da Bergman amplia quello spazio in cui la consapevolezza di chi fa e quella di chi partecipa come spettatore, si incontrano.
Il film inizia con una presentazione, a colori, che ci informa che ciò che stiamo per vedere è una composizione coreografica, ma non un balletto. Fatto che comprenderemo meglio durante la visione del film, composto quasi esclusivamente da primissimi piani, primi piani e dettagli. A questo fa seguito quello scarto (preannunciato) contrassegnato visivamente dal passaggio al bianco e nero, che, dal punto di vista dello statuto fotografico del film appartiene al cortometraggio vero e proprio. Una volta conclusosi, Bergman inserisce un intermezzo, anch’esso a colori, in cui vengono illustrati alcuni presupposti serviti come fondamento per l’elaborazione de Il ballo delle ingrate, grazie a cui è possibile vedere sotto nuova luce il film, che viene appunto ripetuto.(2)
Come già accennato, abbiamo dunque una doppia visione dello stesso filmato. La prima nell’ignoranza delle intenzioni interpretative(3) ed espressive di Bergman e di Donya Feuer, che ha curato la coreografia. La seconda resa particolarmente fertile in seguito all’esposizione delle motivazioni interpretative perseguite dagli autori.
In tal modo, prima viene dato spazio alla elaborazione emotiva e percettiva dello spettatore, poi lo si informa sui motivi che hanno guidato la realizzazione di ciò che ha visto e gli si permette un nuovo confronto, che, a questo punto, non riguarda solo il film, ma il rapporto con ciò che ne ha informato l’impostazione registica.
Tutto ciò non ha nulla di banalmente didattico. Bergman sa evitare il didascalico. D’altra parte non si riserva il diritto all’ultima parola. Dopo che le intenzioni degli autori sono state illustrate, il film viene ripetuto proprio per permettere una nuova visione e una nuova rielaborazione, autonoma e guidata a un tempo, da parte dello spettatore.
Lo spettatore è messo nella condizione di provare l’esperienza di un mutamento del proprio rapporto con un medesimo brano filmato. Al di là dell’opportunità di essere messo al corrente delle principali intenzioni degli autori, ciò che più importa è la possibilità di verificare immediatamente queste chiavi di lettura, ufficialmente ammesse, attraverso la propria attenzione e conoscenza. In una parola: si tratta di compiere un atto critico. Non di accettare come esauriente la spiegazione data a voce nell’intermezzo tra la prima e la seconda visione,(4) ma di farla propria, di valutare gli intenti e l’elaborazione registica sulla base di una riflessione che metta in relazione gli assunti interpretativi degli autori e ciò che risulta dal rapporto interno tra le due visioni del film da parte dello spettatore. Se Il ballo delle ingrate ha valore sperimentale, è in questo aspetto che può rivelarlo. Nello stabilire percorsi di lettura validi come basi per una valutazione critica (e non) non legata meramente al gusto di chi guarda, non dipendente dall’adesione o meno allo stile di un regista, ma capace di mettere in gioco sia lo spettatore sia gli autori stessi. Fornendo basi per una verifica dei risultati degli intenti e dell’interpretazione filmica proposta, fermo restando che forse, il risultato più evidente è lo sconcerto, da parte dello spettatore, nel percepire perfettamente la diversità della propria esperienza di fronte alla visione ripetuta di un medesimo film.
Il film è sempre lo stesso, ma ora egli possiede alcune indicazioni, alcuni piccoli strumenti che gli consentono di muoversi con meno approssimazione all’interno dello stesso. Ciò che sa non è tutto ciò che si può sapere su Il ballo delle ingrate, è solo una parte delle cose che hanno guidato il lavoro di Ingmar Bergman e Donya Feuer, le meno complesse, le più superficiali,(5) e tuttavia ciò è già così tanto, che gli consente di non aggrapparsi al salvagente delle sensazioni o alle sollecitazioni del gusto, provando, invece, il gusto di una pur piccola conoscenza dell’opera, che è ben raro riuscire a cogliere nel tempo in cui viviamo, immersi in una società e nelle estetiche “moderne”, di fronte a qualsivoglia manifestazione artistica. E ciò implica una più sentita e diretta partecipazione all’opera, invece di una indecifrabile affinità o avversione all’autore. È evidente allora come basti poco per rompere le barriere della mera visione cinematografica.
In seguito alla prima visione del film ci viene detto che esso venne realizzato successivamente a Il flauto magico (1974),(6) che ne influenzò la realizzazione, soprattutto per le scene in cui anime di dannati espiano le proprie colpe. Ciononostante, limiterei la suggestione che può offrire questa affermazione. L’idea originaria può senz’altro essere nata, in Bergman (perché metterlo in dubbio?) durante la lavorazione de Il flauto magico, ma è difficile vedervi, sostanzialmente, nulla più che un valore di stimolo, fonte che ha permesso l’intuizione di un tema da sviluppare, distaccandosi tuttavia, anche molto, da qualsiasi elemento che permetta un’associazione critica o stilistica alla trattazione dell’opera mozartiana.
Di fatto, se lo spunto è stato offerto a Bergman da alcune scene dell’opera di Mozart, il cortometraggio, così come è stato realizzato, ha, senza dubbio, un punto di riferimento ben più diretto.
Anche in questo caso si tratta di un referente musicale, che porta il nome del titolo del film. Si tratta de Il ballo delle ingrate (1608) di Claudio Monteverdi, musicato su testo di Ottavio Rinuccini, utilizzato come colonna sonora del cortometraggio.
Tra l’influenza (dichiarata) che l’allestimento cinematografico mozartiano ha permesso e quella geneticamente dovuta all’opera omonima, Bergman adatta una situazione drammatica in cui appaiono figure di “dannati”. Nel film, tuttavia, l’interpretazione attualizza la “dannazione”.
Nell’opera di Monteverdi, le quattro donne sono, in realtà, quattro anime dannate (7) che vengono richiamate dagli inferi per mostrare ciò che accade a coloro che rifiutano in vita le dolcezze dell’amore. Ed è solo all’ultima parte dell’opera, in cui ha luogo questa evocazione, che Bergman e la Feuer si rifanno, condensando tutta l’azione nel passaggio più cruciale, quello dell’apparizione delle anime ingrate e il loro tornare a scomparire dietro «le tenebrose porte.»
Scompare ogni intento allegorico per aprire  la strada alla rappresentazione di una condizione psicologica. In questo senso, senz’altro la versione e i presupposti interpretativi di Bergman e della Feuer possono dirsi a pieno titolo contemporanei.
Nel film, le quattro donne (due giovani sorelle, una donna un po’ più anziana e una bambina) sono chiuse in una stanza. Nessuno evoca la loro presenza. Esse si muovono all’interno di un luogo, fisico e psicologico, chiuso. La loro condizione di donne è espressa da questa chiusura di cui è la donna più anziana a farsi garante e a proibire istinti ribelli da parte di una delle due sorelle, le quali finiscono per adeguarsi, contribuendo loro stesse ad attirare anche la bambina, l’unica che senta ancora la propria appartenenza ad un mondo differente da quello costrittivo che è già pronto anche per lei, un mondo in cui il desiderio può ancora essere vissuto. La dannazione, in sostanza, non è il rischio di un’al di là, ma è già vissuto in questo mondo.
Secondo le intenzioni di Bergman e della Feuer «La stanza chiusa entro la quale le donne si muovono, simboleggia il mondo ristretto nel quale sono costrette a vivere. Il loro stato di recluse le spinge fatalmente a opprimersi le une con le altre».
In questo ambiente chiuso, la macchina da presa segue i movimenti delle protagoniste, per molto tempo lenti, poi improvvisamente rabbiosi e immediatamente soffocati. Il movimento dell’una inizia, spesso, dove finisce quello dell’altra, lo prosegue e lo varia. La mano aperta (di cui ci viene mostrato solo il dorso) della donna più anziana, che dà il via e il tono a tutti i movimenti seguenti, prolifica e irrobustisce, di passaggio in passaggio, fino al finale in cui le mani aperte delle tre donne chiudono la bocca, gli occhi e le orecchie della bambina.
Si ritrova la costante ricerca stilistica bergmaniana concentrata sui volti e sulla grande capacità che possono avere i primi piani se li si sfrutta perseguendo un dinamismo che fa sì che i volti dei personaggi, anche quando esprimono un’attesa, non esprimono una staticità, ma sono invece fonti di inesauribile comunicazione. Se si vuole Il ballo delle ingrate può essere considerato come uno studio sull’espressività dei volti e dei corpi, attraverso cui si manifesta solitudine e soffocamento.
Un film di primissimi piani e dettagli, di volti e di mani che sorgono dal buio quasi in apparente discontinuità dal resto del corpo, in cui al gesto è demandata, più che una cosiddetta resa espressiva, il senso del compiersi di un atto, in un prolungamento o in un rifiuto che lo rapporti e lo accomuni agli altri personaggi. Un film di riprese rigorosamente frontali e di profili, che segnano linee perfette. La creazione di un rapporto tra più volti, esclusivamente attraverso immagini che drammatizzano visivamente la cadenza musicale, invenzioni di movimenti tra luce e oscurità. La gestualità, del resto, segue due percorsi che si contrappongono. I gesti di avvicinamento, di attrazione e quello di ripulsa, di fuga.
Meno chiara è invece l’espressività del volto, più oscillante, quando si tratta di trasmettere stati non estremi, quali la dolcezza, o la disperazione). Allora è proprio quando le mani si toccano, scivolando incerte lungo un muro, o quando i volti, su piani di ripresa differenti, si sovrappongono, che si riconduce visivamente a un destino comune l’individualità di più personaggi.
Tutto ciò è un marchio stilistico inconfondibile in questo quartetto di donne che compone nel finale, in una forzata pacificazione, anzi, in una vera e propria repressione, tutte le variazioni precedenti su cui si erano alternati duetti, trii e assoli.
Il quartetto è una delle forme musicali più ardue. Pretende attenzione e conoscenza anche da parte dell’ascoltatore. Cede poco al fascino delle emozioni. In ambito cinematografico l’idea di questa forma ha qualche costante, che anche altri hanno rilevato,(8) ed è tuttavia tutta da scoprire e da verificare. Aggiungerei che più che una costante relativa ad alcuni autori, riguarda necessariamente un’idea di forma cinematografica. D’altra parte, abbinare la forma “quartetto” alla presenza di quattro personaggi, per quanto possa sembrare banale, è un passo selettivo irrinunciabile. Questa forma rigorosa non è nuova in Bergman. In particolare si può citare un breve accenno tratto dalla monografia di Tino Ranieri dedicata a Bergman e pubblicata da La Nuova Italia,(9) dove viene detto: «Modellato su un quartetto d’archi (la fuga n. 2 in fa minore per violoncello di Bach) Come in uno specchio è anche un quartetto di figure.»(10)
Il quartetto cinematografico presenta delle caratteristiche formali grazie a cui i rapporti tra i personaggi, e tra i personaggi e il mondo in cui sono stati gettati, si concentrano, si condensano, fino a esplodere (secondo un termine usato proprio da Ranieri a proposito di Come in uno specchio).
Come abbiamo detto, la forma del quartetto non è una novità per Bergman (il brano di Ranieri è lì a dimostrarlo), che la utilizza consapevole delle possibilità che un tale schema rigoroso permette rispetto alla presenza e all’intrecciarsi dei personaggi, al loro continuo apparire e scomparire, al cedere l’un l’altro gli spazi, o a predominare con scarti repentini l’uno sull’altro.
La macchina da presa segue costantemente il gesto, il movimento del corpo, e la coreografia consente movimenti plastici che una più consueta presenza attoriale non saprebbe dare. In questa operazione riesce a soffermarsi quel tanto che basta per cogliere una trasformazione su un volto (dal sorriso a una cupezza e insensibilità quasi catatonica, per esempio, sul volto della bambina ogni volta che la si distolga dalla sua bambola) che riempie di senso una particolare scena.
Si può dire, così, che Bergman ritrova ne Il ballo delle ingrate la possibilità espressiva di un’idea, di una forma a cui era autonomamente pervenuto già diversi anni prima,(11) e che questa forma “impura” si propone come qualcosa che va al di là della riduzione alle caratteristiche stilistiche di un autore, ma è piuttosto una forma a cui più di un autore ha saputo dar vita, e solitamente con risultati eccellenti, o interessanti.(12) È dunque un altro aspetto che questo piccolo cortometraggio possiede. E sono soprattutto questi aspetti, l’intenzione che soggiace alla ripetizione di un brano filmato e quello, formale, del “quartetto cinematografico”, piuttosto che l’adesione a un tema e l’interpretazione che ne è data, a dare maggiore valore a Il ballo delle ingrate. Valore che non è quello di una originalità, di una presunta invenzione, ma di una profondità, di chiamare lo spettatore a conoscere meglio i presupposti di un’opera per arrivare a comprendere l’opera, e di metterlo a confronto con uno schema semplice, in un certo senso canonico, in cui i personaggi giocano un ruolo insostituibile che tuttavia non è né principale né secondario rispetto a quello degli altri.

Titolo: Il ballo delle ingrate
Titolo originale: De Fördömda Kvinnornas Dans
Regia: Ingmar Bergman
Interpreti: Nina Harte, Heléne Friberg, Lena Wennergren, LisbethZachrisson
Musica: Claudio MonteverdiOrchestra: Musicae HolmiaSoprano: Dorothy Dorow
Fotografia: Sven Nykvist; Scenografia: Ann Terselius-Hagegard; Costumi: Maggie Strindberg; Coreografie: Donya Feuer. Prodotto da: Ingmar Bergman e Hans Reutersward per Cinematograph SR 2Origine: Svezia. Durata: 24′
Note
1) Ingmar Bergman, Immagini, Milano, Garzanti, 1992.
2) Già i “giovani turchi” dei Cahiers du Cinéma sottolineavano con la vigoria critica che li contraddistingueva, che non solo una seconda visione è differente da una prima, una terza da una seconda, e così via, ma che anche per motivi tecnici il film non è lo stesso perché diverse sono col tempo, proiezione dopo proiezione (o per via di copie differenti), le caratteristiche della pellicola. Sempre uniche e irripetibili sono dunque le condizioni(tecniche, psicologiche, ecc..) che contornano la visione cinematografica.
3) I titoli di testa hanno inizio sulla prima immagine in bianco e nero. Il titolo è riferito alle sequenze che seguiranno, tuttavia, è evidente che sia la presentazione, sia, in maniera maggiore, l’intermezzo, ne sono anch’esse parte, e anzi imprimono fortemente la loro impronta a qualsiasi lettura si voglia dare dell’opera come spettatore. Con la definizione”cortometraggio vero e proprio” non intendo escludere tutto quanto non sia parte della finzione, ma, sia pure con qualche rischio di fraintendimento, trasmettere il differente statuto narrativo ed espressivo delle sequenze in questione.
4) Vedremo più avanti quale sia il principale referente su cui viene esercitato il lavoro interpretativo.
5) Del resto si stratta di informazioni sulle fonti, sulle influenze, sugli stimoli, sulle interpretazioni, ecc.. Le modalità di lettura pertengono pur sempre allo spettatore.
6) Lo spettatore, in definitiva, viene a conoscenza di ciò che gli consente di rispondere, sia pure indicativamente, a domande di immediata riconoscibilità. Per esempio, chi siano, e soprattutto cosa facciano e cosa rappresentino i personaggi. Tutto il resto, tutto ciò che non è immediatamente denotativo, rimane aperto.
7) Storicizzando questo cortometraggio all’interno dell’attività non strettamente cinematografica di Bergman, e anche facendo riferimento ad alcuni elementi biografici, può essere utile precisare che nel 1976, anno in cui viene realizzato Il ballo delle ingrate, Bergman porta in teatro Il ballo della morte di August Strindberg. Per il cinema invece, è l’anno in cui realizza  L’immagine allo specchio.
8) L’opera di Monteverdi (Libro VIII dei Madrigali), in realtà comprende quattro anime ingrate cantanti, di cui due soprani, un contralto e un tenore, dunque tre donne e un uomo.Oltre a ciò va sottolineato che l’opera prevedeva, in quanto ballo di corte, una danza a cui le anime ingrate erano previste nel numero di otto. Oltre a ciò figuravano anche quattro ombre infernali (presenti anche come cantanti) e i tre personaggi che fanno nascere l’azione attraverso l’evocazione, Venere, Amore e Plutone.
9) Mi riferisco in particolare a Ermanno Comuzio.
10) Tino Ranieri, Ingmar Bergman, Firenze, La Nuova Italia, 1974.
11)  Ibid., p. 79.
12) Come in uno specchio, il cui titolo originale è  Säsom i en spegel, fu realizzato nel 1961.

13) Vorrei citare solo alcuni film che potrebbero rientrare in uno studio apposito: Muriel e  L’amour a mort

di Alain Resnais, Cinque sere di Nikita Mikhalkov, Streamers di Robert Altman.

Lacrime e ragù

UNA NOBILE RIVOLUZIONE13

di Katia Ceccarelli.

Recensione a: “Una nobile rivoluzione” di Simone Cangelosi.

 

Sembra un personaggio di Virginia Woolf, Marcella Di Folco.
Anzi sembra proprio Orlando, creatura che nella finzione della scrittrice vive parte dell’esistenza con aspetto maschile e parte in forma di donna senza mai avere alcun dubbio su quale sia l’essenza della parola “Io”.
Nel romanzo il cambio di genere avviene in maniera indolore quasi magica. Dopo una grande febbre e un lungo sonno, il nobile, ricco e bell’Orlando si risveglia e si ritrova nello specchio come donna eppure non si scompone perché sa che nulla è cambiato, è intelligente, bella e affascinante esattamente come lo era da uomo; sarà la società e solo quella a decretare che, in quanto donna, per Orlando le cose dovranno essere più complicate e dolorose.
Il cambio di sesso per Marcella e per tutte le persone che hanno incontrato e scelto lo stesso suo destino non è stato di certo una magia ma l’energia profusa nella lotta contro una società ghettizzante e giudicante è sì degna di un romanzo.
Nel lavoro di Simone Cangelosi contempliamo l’eccezionalità di Marcella Di Folco, persona che ha vissuto circa metà della sua esistenza in forma di uomo e l’altra in forma di donna dimostrando sempre inalterate e purissime le sue qualità carismatiche e di leadership.
Come viaggiando su una giostra incantata, l’eroina di questa storia vive tante vite e attraversa, mai inosservata, momenti e luoghi dal grande potere simbolico.
La Roma dei Parioli e del Piper, il cinema di Fellini in cui Marcella è un principe alto e longilineo con la faccia di un giovane Nerone e la divisa bianca di un sensuale Vronskij.
Nel viaggio a Roma alla ricerca del passato fa da guida la sorella di Marcella in una luce tanto limpida da evocare la pittura metafisica sebbene in realtà sia solo il pomeriggio della città inesorabilmente deserta in tempo di pennichella.

Qui si scende nelle catacombe del nostro tempo verso ciò che resta del Piper mentre i reduci si esortano a ricordare e recitano la nomenclatura dei vivi e dei morti perché come diceva Monsignor Colombo da Priverno: “I rivoluzionari morono a vent’anni pure quanno nun morono”.
La personale rivoluzione di Marcella inizia e culmina nella città che della rivoluzione ha fatto istituzione. A Bologna la vita in forma di donna e successivamente di attivista e di leader politico la porta fino al consiglio comunale come prima transessuale a essere eletta a una carica pubblica.
Una rivoluzione nobile e straordinaria nel senso di oltre l’ordinario in qualsiasi forma la si voglia vedere. Il film di Simone Cangelosi fonde interviste e filmati di giorni non comuni in compagnia di Marcella, testimonianze dirette, materiali d’archivio.
È difficile non ritrovare nelle scene a Roma citazioni e atmosfere di quel grande cinema di cui la Di Folco ha fatto parte, poi per un momento la vediamo radiosa donna e ci appare come una star di Andy Warhol ma non è New York che l’aspetta, piuttosto una Bologna in notturna dove i totem dell’istituzione sono luci a caratteri cubitali.
Se nella prima parte prevale lo stupore avvolto dalla nostalgia, nel documento del periodo bolognese si avvertono potenti la mestizia e il dolore per l’assenza. Un lavoro importante e utile per far conoscere e riconoscere il valore di un’esperienza grande e unica, per ricordare una figura nobile, senza ombra di dubbio, una principessa gigante capace di piangere circondata da un mare di ragù.

UNA NOBILE RIVOLUZIONE22

UNA NOBILE RIVOLUZIONE14

 

Una nobile rivoluzione è il titolo del documentario sulla vita di Marcella Di Folco, leader del movimento LGBT italiano scomparsa nel 2010,  diretto da Simone Cangelosi, già autore del  cortometraggio documentario Dalla testa ai piedi del 2007 scritto in collaborazione con Roberto Nisi, co-sceneggiatore anche di quest‘ultimo lavoro. Prodotto da Gianluca Buelli e Claudio Giapponesi per Pierrot e La Rosa e Kiné Società Cooperativa, il film, distribuito in Italia dalla Cineteca di Bologna a partire da marzo 2015 e a livello internazionale da The Open Reel, vanta nel suo cast tecnico personaggi di spicco del panorama televisivo e cinematografico nazionale. Menzioniamo, dunque, Debora Vrizzi (tra gli ultimi lavori, degno di menzione è Le radici dell’aria di Francesca  Archibugi) alla fotografia e Fabio Bianchini Pepegna (da citare La rabbia di Pasolini per la regia di Giuseppe Bertolucci) al montaggio.

http://www.unanobilerivoluzione.it/

 

Cineteca Eurasia

Giampiero Comolli

Ricordi di film visti in viaggio

Giampiero Comolli

Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2005 – €. 14,00.

di Fabio Matteuzzi

All’inizio del terzo capitolo di questo curioso resoconto di visioni di cinema marginale avute casualmente o quasi nel corso di anni di viaggi in qualità di giornalista (tra Europa ed Oriente), Comolli mette le mani avanti: «È meglio chiarirlo subito: non dispongo di conoscenze sufficienti, neanche a livello amatoriale, per decifrare il linguaggio cinematografico. Sono solo un fruitore passivo, anche se assiduo, di pellicole di largo consumo. Quando non mi trovo in viaggio, mi piace «andare al cinema», e ci vado spesso. Ma mi limito a frequentare le prime visioni, quelle che si danno nelle grandi sale.» (pag. 31). Poi di fatto ci conduce, ma aveva già iniziato a farlo, in un mondo veramente singolare, in cineclub o piccole sale più o meno improvvisate all’interno di mercati delle grandi megalopoli d’Oriente, oppure in locali adiacenti ad antichi templi buddisti in cui ha modo di vedere film che neanche il critico specializzato può avere visto, scopre il fascino di una visione cinefila che forse anche da noi si è persa, la cinefilia non degli specialisti, ma dei curiosi, in qualche modo flaneur.

Vede film amatoriali, ha modo di vedere in occasioni diverse film di autori che neanche i più aggiornati testi e cataloghi che fanno il punto sulla situazione di cinematografie emergenti, quale quella di Hong Kong, ad esempio, riportano, sperimenta come all’interno di film mediocri possa comunque essere presente in maniera forte, al punto da permettergli di tornare e ritornare più volte a distanza di anni da quelle lontane proiezioni, una sequenza particolarmente significativa, capace di colpire e di fare ricordare il nome di quel regista sconosciuto. Insomma il piacere di uno sguardo che scopre cose “mai viste prima” con quel gusto grazie a cui ognuno di noi si è avvicinato per la prima volta al cinema, quando era ragazzo. Ebbene qui il cinema è, appunto, marginale. Le sale, spesso, sono improvvisate, addirittura appartamenti. Proprio da queste pellicole, in questi luoghi, si mantiene il fascino dello spettacolo cinematografico.

Qui Comolli, giornalista e viaggiatore occidentale, riflette su convergenze e divergenze dell’espressività occidentale ed orientale. Si affaccia così un grande tema: quello del raffronto, narrativo, compositivo, ma anche, se si vuole (ma Comolli è abbastanza saggio da non toccare frontalmente questo tema, mantenendo la freschezza di questo reportage “cinematografico”) culturale, che, personalmente, mi ha ribadito quanto potrebbe essere necessaria e stimolante l’elaborazione di uno sguardo critico e teorico capace di prefigurare una cinematografia comparata. Disciplina mancante, nelle università di tutto il mondo, della quale si possono trovare solo approcci singoli e delimitati, non una vera sistematizzazione.

Altro aspetto interessante è come Comolli abbia scritto questo libro a posteriori, a distanza di anni dalle proiezioni cui aveva assistito. Così il libro si costruisce attraverso un recupero di episodi nella memoria dell’autore, il cui lavoro giornalistico lo impegnava in altre ricerche rispetto a quelle cinematografiche. Tuttavia si tratta di un recupero privo di sforzo, grazie forse anche alla prosa fluida di Comolli. Il risultato è la chiarezza dei ricordi dei luoghi e delle immagini filmiche, la loro compartecipazione e le imprevedibili connessioni che l’autore ha vissuto, e di cui ci narra. Le immagini, così lontane nel tempo, sono riuscite a mantenere una presenza inaspettata, una forza che solitamente si è portati ad abbinare alle grandi opere cinematografiche. Certo è una memoria legata esclusivamente alla esperienza personale. Non alla persuasività della pubblicità, non alla diffusione del film di successo, non alla comodità dell’home video.

Il libro sembra guidato – lo sottolinea lo stesso autore – da una sostanziale casualità: quella che fa sorgere affinità tra un dipinto del grande maestro giapponese Utamaro e un filmetto amatoriale di un inglese trapiantato a Bali. Attraverso la casualità si notano alcune coincidenze, e, a partire da queste, Comolli sviluppa le proprie riflessioni attraverso una scrittura filmica che tocca gli argomenti delle visioni cinematografiche cui ha assistito, ma anche le avvolge in divagazioni che in realtà legano le immagini ai luoghi in cui sono state proiettate fino a giungere ad altre visioni (non necessariamente cinematografiche), in altri luoghi, e ad un loro inevitabile confronto. Avviene uno scambio, così come la visione di un film può legarsi al luogo in cui la visione ha luogo (per esempio nei pressi di Sligo, in Irlanda, la visione di un breve filmato “turistico” da cui affiora inaspettatamente la voce del poeta Yeats), così questo stesso filmato dà luogo a una riflessione e a suggestioni capaci di fare riaffiorare i ricordi di un viaggio in India precedente di molti anni. Le suggestioni si concatenano: quelle cinematografiche hanno la stessa importanza di quelle dei suoni, degli odori, del paesaggio, delle voci e delle persone incontrate. Il cinema, questo cinema “minore”, è dunque qualcosa di vivo. Vitalità mantenuta sfuggendo all’apparato cinematografico spettacolare, in grado tuttavia di sollecitare suggestioni e riflessioni in spettatori disposti a lasciarsi sorprendere.

Elena Pigozzi, Uragano d’estate, Marsilio, 2009

senso

di Sara Fiori   

Valeggio è un paese che si trova a un pugno di chilometri da Verona, conta poco più di tredicimila anime ed è attraversato dal fiume Mincio, vicino al confine con il mantovano. Elena Pigozzi, veronese d’origine, ci racconta anche questo nel suo romanzo d’esordio Uragano d’estate. Le sue pagine infatti ci dicono molto in merito all’aspetto che avevano Borghetto e le altre frazioni del paese negli anni Cinquanta. Anzi, a voler essere più precisi, ci descrivono come le sue strade, le sue piazze, i suoi angoli e persino l’attenzione e i pensieri quotidiani dei suoi stessi abitanti d’allora furono “stravolti” letteralmente per un paio di mesi dall’arrivo e dal lavoro di una troupe cinematografica nella calda estate del 1953.

Il film in questione è un film “importante”, Senso di Luchino Visconti, che fu girato tra il 1953 e il 1954 e realizzato dalla Lux, che in quegli anni era una delle principali case di produzione italiane.

Sul film del resto si è già scritto e detto molto, un suo posto, nella letteratura critica, cinematografica e popolare del nostro paese, Senso lo ha già da decenni. Il neorealismo e la sua rilettura storica e melodrammatica da parte del cineasta sono ormai codificati da tutti i manuali di storia del cinema: la cesura celeberrima che esso stesso rappresenta fa di questo un film spartiacque. (Il neorealismo dei “poveri cristi” e dei passi degli operai stanchi è ormai già vecchio in questi frangenti, lo danno tutti per assodato, qui si assiste al blasonato passaggio dalla cronaca alla storia, dal neorealismo al realismo). La nota vicenda della contessa veneziana Livia Serpieri, interpretata da una bellissima e persino lasciva Alida Valli, che si innamora di un generale austriaco la conosciamo benissimo; altrettanto studiate e dichiarate sono le parentele con il genere melodrammatico e con il film opera, le influenze verdiane e tutti gli echi figurativi e pittorici dei quadri di Giovanni Fattori e dell’universo estetico dei Macchiaioli.

Tutto questo in merito al film, e fino a qui, in fondo, non c’è niente di nuovo. Ma Elena Pigozzi sceglie di battere un’altra strada, quella della ricostruzione romanzesca. E ci racconta quello che oggi chiamiamo il backstage del film viscontiano. Fa sicuramente un effetto un po’ strano riferirsi in termini linguisticamente così attuali (di americanizzazione lessicale si tratta) in merito a un grande film “paradigmatico” del passato. Tuttavia è proprio questo che racconta il libro. Qualcun’altro, sempre sull’onda delle tendenze culturali di questi ultimi anni, potrebbe preferire condensare il senso del lavoro della Pigozzi menzionando il termine (tanto caro oggi alle associazioni Pro Loco un po’ ovunque) di “cineturismo”. Forse a “lenire” un certo scacco temporale scaturito da queste prime osservazioni sul libro, possiamo per adesso avanzare due precisazione. In primo luogo, questa “modernizzazione” dell’interpretazione stessa, deve accompagnarsi al dato di fatto per cui il libro, nella sua struttura e diegesi narrativa, va ad allacciare strette parentele con la dimensione del romanzo d’appendice e di certa paraletteratura che di sicuro ben si connettono al panorama contestuale italiano degli anni Cinquanta e che ben contribuirono allora a definire e a plasmare anche i quadri divistici e popolari di quegli anni. Per cui il libro, a ben vedere, riesce comunque a rievocare una sua temporalità contestuale specifica. In secondo luogo poi, c’è da dire che l’interesse critico nei confronti del film si è comunque sempre mantenuto vivo.

Tornando a Uragano d’estate, la storia è articolata su un doppio binario narrativo: da una parte c’è la dimensione puramente metalinguistica rappresentata dalle riprese del film, con la riflessività che si compie in una traiettoria interessante e intermediatica che va dal film raccontato nel libro, dall’altra c’è la dimensione “romanzesca romanzata ”, con le trame puramente da feuilleton degli intrecci e delle peripezie “amorose e non” durante le esaltanti giornate vissute a contatto con il magico mondo del cinema dalla gente del luogo.

La cronaca di quegli anni finisce inzuppata nell’insieme del racconto: c’è la morte di Aldo, direttore della fotografia dalla forte attitudine alla sperimentazione visiva, che muore in seguito ad un incidente. In realtà Aldo, artista molto amato da Visconti, scomparve durante le riprese del film e venne poi sostituito da Kraiser nel corso della lavorazione. L’autrice descrive con molta cura il personaggio prima della sua tragica fine: racconta il suo lavoro, nello sforzo incessante di ri­creare (e reinterpretare) la luce, i colori e le atmosfere del paesaggio lombardo-veneto. Un altro “dato” reale di cronaca che la Pigozzi recupera è la notizia, arrivata sul set come un fulmine a ciel sereno, dell’arresto e dell’incarcerazione dei critici Guido Aristarco e Renzo Renzi, colpevoli di aver scritto sulle pagine della rivista Cinema nuovo un soggetto sulla campagna di Grecia, considerato infamatorio nei confronti dell’esercito del nostro paese. Come si evince da questi due fatti reali menzionati, si tratta in realtà di due accadimenti significativi ma circoscritti, ascrivibili cioè ancora all’universo dei discorsi (storici, ma anche paratestuali se vogliamo) attorno al mondo del cinema e al film stesso. Il contesto storico e sociale nel senso più ampio del termine vi ha poco a che fare. Lo sfondo del dopoguerra italiano, in un periodo di piena trasformazione economica e dei costumi, (si pensi ad esempio a fatti di cronaca popolare come lo scandalo della morte della giovane Wilma Montesi, o a mutamenti politici come la fine del governo degasperiano), fanno capolino sommessamente e timidamente in un contesto generale che sfuma nel limbo (non raccontato) tra il due universi di interesse: il cinema e il popolare.

Da un lato troviamo infatti la rappresentazione stereotipata del mondo del cinema di quei floridi anni: le varie figure “reali” compaiono pagina dopo pagina. C’è il talento organizzativo e pragmatico di Davanzati, così come vediamo il patron Riccardo Gualino, preoccupato che il «Conte Rosso», come era chiamato Visconti dai detrattori, non gli procuri eccessivi problemi con la censura e perciò costretto ad accettare la presenza sul set di due generali, mandati in qualità di supervisori dal Ministero della difesa per le scene di battaglia. Ancora: ritroviamo la sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico, sempre pronta a “controllare” i guizzi eccessivamente “polemici” o ambigui del cineasta, a riscrivere gli spunti e dar forma di parole anche alle idee più azzardate; Piero Tosi, convinto che il costume sia essenziale per ogni personaggio; i futuri registi Francesco Rosi e Franco Zeffirelli qui descritti giovanissimi ai loro esordi. C’è poi Alida Valli, già donna matura e bellissima, attrice affermata che sul set vediamo avvicinarsi in un’amicizia ancora timida a quel Giancarlo Zagni, qui assistente alla regia di Visconti, che poi diverrà uno dei grandi amori della sua vita. E infine c’è Massimo Girotti, già divo bramato e adulato, bellissimo e sfuggente, con le ragazzine del paese che si “spartiscono” i pezzi dei suoi pantaloni rubati da una finestra.

Dall’altro lato poi c’è invece c’è il microcosmo culturale della gente di Valeggio e dintorni. Un campionario umano che si caratterizza per una marcata tipizzazione dei suoi personaggi (dalla ragazzina ingenua che sogna a occhi aperti il cinema e l’amore come la giovane Liliana, alla prorompente ostessa del paese Romilda attorniata da pretendenti un po’ inebetiti dalle sue curve, dal farmacista anarchico Luigi Manin al curioso Ettore commerciante di stoffe invaghito di Romilda). Lo stesso si può dire, del resto, per tutta la sfera relazionale e dell’azione in cui si trova coinvolta questa piccola comunità: l’orizzonte privilegiato è quello dei sentimenti: amicizie, amori, invaghimenti e flebili gelosie si intrecciano così fuori ed attorno al set, a comporre una sorta di vicenda unica, un romanzo rosa nel film che parallelamente viene girato. Il giovane e schivo Ferdinando, assistente del fotografo, vive una difficile e contrastata storia d’amore con Liliana, comparsa timida e bellezza ancora acerba. L’ostessa invece deve decidere tra i numerosi spasimanti che la vorrebbero in moglie, mentre l’amica attempata e zitella Ines dispensa consigli con un filo d’invidia. Marisa e le altre ragazzine fanno a gara tra di loro a mettersi tutte in ghingheri nella mera speranza di essere notate e sbavano inevitabilmente al passaggio di Massimo Girotti, loro attore preferito. Potremmo continuare ma ci fermiamo qui: è un intreccio di vicende popolari da immaginario diffuso e condiviso, tra la concezione dell’amore romantico e l’inevitabile riferimento a trame diegetiche melodrammatiche diffuse e circolanti proprio in quegli anni. I rotocalchi femminili in particolare (dalle novelle a puntate ai fotoromanzi) veicolano contenuti e formule specifici.

Nel romanzo il rapporto tra i due livelli slitta continuamente. La Pigozzi sembra infatti volerci suggerire che la relazione reale/fittizio, insieme a quella vita/diegesi, gioca soltanto di slittamenti reciproci. Forse proprio in virtù della grande capacità del medium cinematografico di porsi naturalmente in modo fertile rispetto alla creazione delle storie. Il cinema ha la potenzialità di alimentare miti e leggende all’infinito. Così a Valeggio sul Mincio, paese sperduto ed inedito, di fronte al passaggio di una troupe chiassosa e foltissima, naturalmente e in poche settimane, si sposta l’asse dell’azione drammatica dal quotidiano all’inusuale, per la ricchezza e per l’eccezionalità dell’occasione. Il meccanismo spettacolare insito nel mezzo cinematografico canalizza così gli input privati e relazionali (amicizie, amori, ricordi) e questi a loro volta resteranno anche nel patrimonio discorsivo e culturale della piccola comunità, seppur destinati nel tempo a sbiadirsi, a enfatizzarsi o a modificarsi in seno alle dinamiche innate di una tradizione di tipo orale.

Oltre a questo poi, le due dimensioni del romanzo permettono di aprire un certo tipo di discorso referenziale e metalinguistico sul mondo del cinema tout court. I suoi stessi meccanismi produttivi, descritti assai ampiamente, ci restituiscono oltremodo una rappresentazione verbale (e popolare) della dimensione cinematografica e delle sue dinamiche spettacolari. Ad esempio, il momento dei provini e delle scritture, a cui nel libro è dedicato ampio spazio, ci racconta di un sogno magico e condiviso, faticoso ma agognato dalla collettività (femminile perlopiù) senza riserve. Per contro, il romanzo ricalca anche la tendenza conservatrice, moraleggiante e un po’ nazionalpopolare che contrapponeva in quegli anni “ideali con i piedi per terra” a chimere effimere di gloria. Il personaggio della madre di Liliana si colloca proprio su questo versante della prudenza, con le sue paure per la figlia troppo giovane e i suoi dubbi nei confronti di un mondo che non conosce. La rassicurante domesticità familiare, del resto, in quegli anni, rimane l’opzione suggerita anche dagli stessi rotocalchi femminili d’epoca, dalle cui colonne penne di esperti elargiscono consigli “tranquillizzanti” a fare da monito a tutte le fanciulle smaniose di gloria. La rappresentazione del fenomeno divistico in senso specifico evidenzia tuttavia tutta la forza di una fascinazione coatta: le scene di panico in paese in merito ai pantaloni di Massimo Girotti, divisi come cimeli tra la schiera di adepte paesane sono state già menzionato. L’arrivo di Alida Valli sul set è descritto in toni di una eterea ed evanescente visione:

«Tutt’attorno sugli argini, nella luce di un tramonto caldo di fine estate, si era assiepata la gente di Valeggio che aveva raggiunto il ponte con ogni mezzo appena diffusasi la notizia che era arrivata finalmente lei e che ci sarebbe stato il primo ciak per una scena fondamentale.»

Infine un’ultima precisazione sullo stile. Sembra che il regime “quasi” paraletterario di certe vicende contamini anche il registro dell’opera e le descrizioni comunque “romanzate” dell’universo produttivo, attoriale e spettacolare della cosiddetta “macchina cinema”. Basti citare ad esempio che, in un’impressione fugace di Luisa, una delle belle e giovani comparse del film, il regista Visconti viene descritto con: «due occhi che quando ti fissavano toglie­ vano il sole per metterti al centro dell’universo».

O ancora, si legga in tal senso, sia la descrizione dello stile recitativo di Alida Valli (che ha «nelle sue fibre, nella sua carne, nel­ le sue vene, un’ansia, una pena»); sia il passo dove l’attrice compare sul set:

«Passo lento, capo inclinato, sguardo rivolto verso il fiume Mincio. Alida Valli fissò il regista, Luchino Visconti, con occhi profondi e cupi. Dolore, disperazione, orgoglio calpestato, pensava l’attrice sentendosi già intimamente Livia Serpieri, la contessa travolta dall’amore per il bell’ufficiale austriaco, al punto di tradire il marito, i patrioti, la causa italiana, fino alla perdizione.»

Il titolo stesso del romanzo è assai evocativo: il film, tra le varie opzioni, avrebbe dovuto intitolarsi così, poi Visconti cambiò idea. L’uragano è quello che si abbatte con il circo del cinema sul paese e sui suoi abitanti nell’afa agostana di tanti anni fa. E proprio per questo il cerchio si chiude: non si può non pensare anche a una passione a puntate dei tempi perduti. A una storia lontana, già letta da qualche parte.