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Elena Pigozzi, Uragano d’estate, Marsilio, 2009

senso

di Sara Fiori   

Valeggio è un paese che si trova a un pugno di chilometri da Verona, conta poco più di tredicimila anime ed è attraversato dal fiume Mincio, vicino al confine con il mantovano. Elena Pigozzi, veronese d’origine, ci racconta anche questo nel suo romanzo d’esordio Uragano d’estate. Le sue pagine infatti ci dicono molto in merito all’aspetto che avevano Borghetto e le altre frazioni del paese negli anni Cinquanta. Anzi, a voler essere più precisi, ci descrivono come le sue strade, le sue piazze, i suoi angoli e persino l’attenzione e i pensieri quotidiani dei suoi stessi abitanti d’allora furono “stravolti” letteralmente per un paio di mesi dall’arrivo e dal lavoro di una troupe cinematografica nella calda estate del 1953.

Il film in questione è un film “importante”, Senso di Luchino Visconti, che fu girato tra il 1953 e il 1954 e realizzato dalla Lux, che in quegli anni era una delle principali case di produzione italiane.

Sul film del resto si è già scritto e detto molto, un suo posto, nella letteratura critica, cinematografica e popolare del nostro paese, Senso lo ha già da decenni. Il neorealismo e la sua rilettura storica e melodrammatica da parte del cineasta sono ormai codificati da tutti i manuali di storia del cinema: la cesura celeberrima che esso stesso rappresenta fa di questo un film spartiacque. (Il neorealismo dei “poveri cristi” e dei passi degli operai stanchi è ormai già vecchio in questi frangenti, lo danno tutti per assodato, qui si assiste al blasonato passaggio dalla cronaca alla storia, dal neorealismo al realismo). La nota vicenda della contessa veneziana Livia Serpieri, interpretata da una bellissima e persino lasciva Alida Valli, che si innamora di un generale austriaco la conosciamo benissimo; altrettanto studiate e dichiarate sono le parentele con il genere melodrammatico e con il film opera, le influenze verdiane e tutti gli echi figurativi e pittorici dei quadri di Giovanni Fattori e dell’universo estetico dei Macchiaioli.

Tutto questo in merito al film, e fino a qui, in fondo, non c’è niente di nuovo. Ma Elena Pigozzi sceglie di battere un’altra strada, quella della ricostruzione romanzesca. E ci racconta quello che oggi chiamiamo il backstage del film viscontiano. Fa sicuramente un effetto un po’ strano riferirsi in termini linguisticamente così attuali (di americanizzazione lessicale si tratta) in merito a un grande film “paradigmatico” del passato. Tuttavia è proprio questo che racconta il libro. Qualcun’altro, sempre sull’onda delle tendenze culturali di questi ultimi anni, potrebbe preferire condensare il senso del lavoro della Pigozzi menzionando il termine (tanto caro oggi alle associazioni Pro Loco un po’ ovunque) di “cineturismo”. Forse a “lenire” un certo scacco temporale scaturito da queste prime osservazioni sul libro, possiamo per adesso avanzare due precisazione. In primo luogo, questa “modernizzazione” dell’interpretazione stessa, deve accompagnarsi al dato di fatto per cui il libro, nella sua struttura e diegesi narrativa, va ad allacciare strette parentele con la dimensione del romanzo d’appendice e di certa paraletteratura che di sicuro ben si connettono al panorama contestuale italiano degli anni Cinquanta e che ben contribuirono allora a definire e a plasmare anche i quadri divistici e popolari di quegli anni. Per cui il libro, a ben vedere, riesce comunque a rievocare una sua temporalità contestuale specifica. In secondo luogo poi, c’è da dire che l’interesse critico nei confronti del film si è comunque sempre mantenuto vivo.

Tornando a Uragano d’estate, la storia è articolata su un doppio binario narrativo: da una parte c’è la dimensione puramente metalinguistica rappresentata dalle riprese del film, con la riflessività che si compie in una traiettoria interessante e intermediatica che va dal film raccontato nel libro, dall’altra c’è la dimensione “romanzesca romanzata ”, con le trame puramente da feuilleton degli intrecci e delle peripezie “amorose e non” durante le esaltanti giornate vissute a contatto con il magico mondo del cinema dalla gente del luogo.

La cronaca di quegli anni finisce inzuppata nell’insieme del racconto: c’è la morte di Aldo, direttore della fotografia dalla forte attitudine alla sperimentazione visiva, che muore in seguito ad un incidente. In realtà Aldo, artista molto amato da Visconti, scomparve durante le riprese del film e venne poi sostituito da Kraiser nel corso della lavorazione. L’autrice descrive con molta cura il personaggio prima della sua tragica fine: racconta il suo lavoro, nello sforzo incessante di ri­creare (e reinterpretare) la luce, i colori e le atmosfere del paesaggio lombardo-veneto. Un altro “dato” reale di cronaca che la Pigozzi recupera è la notizia, arrivata sul set come un fulmine a ciel sereno, dell’arresto e dell’incarcerazione dei critici Guido Aristarco e Renzo Renzi, colpevoli di aver scritto sulle pagine della rivista Cinema nuovo un soggetto sulla campagna di Grecia, considerato infamatorio nei confronti dell’esercito del nostro paese. Come si evince da questi due fatti reali menzionati, si tratta in realtà di due accadimenti significativi ma circoscritti, ascrivibili cioè ancora all’universo dei discorsi (storici, ma anche paratestuali se vogliamo) attorno al mondo del cinema e al film stesso. Il contesto storico e sociale nel senso più ampio del termine vi ha poco a che fare. Lo sfondo del dopoguerra italiano, in un periodo di piena trasformazione economica e dei costumi, (si pensi ad esempio a fatti di cronaca popolare come lo scandalo della morte della giovane Wilma Montesi, o a mutamenti politici come la fine del governo degasperiano), fanno capolino sommessamente e timidamente in un contesto generale che sfuma nel limbo (non raccontato) tra il due universi di interesse: il cinema e il popolare.

Da un lato troviamo infatti la rappresentazione stereotipata del mondo del cinema di quei floridi anni: le varie figure “reali” compaiono pagina dopo pagina. C’è il talento organizzativo e pragmatico di Davanzati, così come vediamo il patron Riccardo Gualino, preoccupato che il «Conte Rosso», come era chiamato Visconti dai detrattori, non gli procuri eccessivi problemi con la censura e perciò costretto ad accettare la presenza sul set di due generali, mandati in qualità di supervisori dal Ministero della difesa per le scene di battaglia. Ancora: ritroviamo la sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico, sempre pronta a “controllare” i guizzi eccessivamente “polemici” o ambigui del cineasta, a riscrivere gli spunti e dar forma di parole anche alle idee più azzardate; Piero Tosi, convinto che il costume sia essenziale per ogni personaggio; i futuri registi Francesco Rosi e Franco Zeffirelli qui descritti giovanissimi ai loro esordi. C’è poi Alida Valli, già donna matura e bellissima, attrice affermata che sul set vediamo avvicinarsi in un’amicizia ancora timida a quel Giancarlo Zagni, qui assistente alla regia di Visconti, che poi diverrà uno dei grandi amori della sua vita. E infine c’è Massimo Girotti, già divo bramato e adulato, bellissimo e sfuggente, con le ragazzine del paese che si “spartiscono” i pezzi dei suoi pantaloni rubati da una finestra.

Dall’altro lato poi c’è invece c’è il microcosmo culturale della gente di Valeggio e dintorni. Un campionario umano che si caratterizza per una marcata tipizzazione dei suoi personaggi (dalla ragazzina ingenua che sogna a occhi aperti il cinema e l’amore come la giovane Liliana, alla prorompente ostessa del paese Romilda attorniata da pretendenti un po’ inebetiti dalle sue curve, dal farmacista anarchico Luigi Manin al curioso Ettore commerciante di stoffe invaghito di Romilda). Lo stesso si può dire, del resto, per tutta la sfera relazionale e dell’azione in cui si trova coinvolta questa piccola comunità: l’orizzonte privilegiato è quello dei sentimenti: amicizie, amori, invaghimenti e flebili gelosie si intrecciano così fuori ed attorno al set, a comporre una sorta di vicenda unica, un romanzo rosa nel film che parallelamente viene girato. Il giovane e schivo Ferdinando, assistente del fotografo, vive una difficile e contrastata storia d’amore con Liliana, comparsa timida e bellezza ancora acerba. L’ostessa invece deve decidere tra i numerosi spasimanti che la vorrebbero in moglie, mentre l’amica attempata e zitella Ines dispensa consigli con un filo d’invidia. Marisa e le altre ragazzine fanno a gara tra di loro a mettersi tutte in ghingheri nella mera speranza di essere notate e sbavano inevitabilmente al passaggio di Massimo Girotti, loro attore preferito. Potremmo continuare ma ci fermiamo qui: è un intreccio di vicende popolari da immaginario diffuso e condiviso, tra la concezione dell’amore romantico e l’inevitabile riferimento a trame diegetiche melodrammatiche diffuse e circolanti proprio in quegli anni. I rotocalchi femminili in particolare (dalle novelle a puntate ai fotoromanzi) veicolano contenuti e formule specifici.

Nel romanzo il rapporto tra i due livelli slitta continuamente. La Pigozzi sembra infatti volerci suggerire che la relazione reale/fittizio, insieme a quella vita/diegesi, gioca soltanto di slittamenti reciproci. Forse proprio in virtù della grande capacità del medium cinematografico di porsi naturalmente in modo fertile rispetto alla creazione delle storie. Il cinema ha la potenzialità di alimentare miti e leggende all’infinito. Così a Valeggio sul Mincio, paese sperduto ed inedito, di fronte al passaggio di una troupe chiassosa e foltissima, naturalmente e in poche settimane, si sposta l’asse dell’azione drammatica dal quotidiano all’inusuale, per la ricchezza e per l’eccezionalità dell’occasione. Il meccanismo spettacolare insito nel mezzo cinematografico canalizza così gli input privati e relazionali (amicizie, amori, ricordi) e questi a loro volta resteranno anche nel patrimonio discorsivo e culturale della piccola comunità, seppur destinati nel tempo a sbiadirsi, a enfatizzarsi o a modificarsi in seno alle dinamiche innate di una tradizione di tipo orale.

Oltre a questo poi, le due dimensioni del romanzo permettono di aprire un certo tipo di discorso referenziale e metalinguistico sul mondo del cinema tout court. I suoi stessi meccanismi produttivi, descritti assai ampiamente, ci restituiscono oltremodo una rappresentazione verbale (e popolare) della dimensione cinematografica e delle sue dinamiche spettacolari. Ad esempio, il momento dei provini e delle scritture, a cui nel libro è dedicato ampio spazio, ci racconta di un sogno magico e condiviso, faticoso ma agognato dalla collettività (femminile perlopiù) senza riserve. Per contro, il romanzo ricalca anche la tendenza conservatrice, moraleggiante e un po’ nazionalpopolare che contrapponeva in quegli anni “ideali con i piedi per terra” a chimere effimere di gloria. Il personaggio della madre di Liliana si colloca proprio su questo versante della prudenza, con le sue paure per la figlia troppo giovane e i suoi dubbi nei confronti di un mondo che non conosce. La rassicurante domesticità familiare, del resto, in quegli anni, rimane l’opzione suggerita anche dagli stessi rotocalchi femminili d’epoca, dalle cui colonne penne di esperti elargiscono consigli “tranquillizzanti” a fare da monito a tutte le fanciulle smaniose di gloria. La rappresentazione del fenomeno divistico in senso specifico evidenzia tuttavia tutta la forza di una fascinazione coatta: le scene di panico in paese in merito ai pantaloni di Massimo Girotti, divisi come cimeli tra la schiera di adepte paesane sono state già menzionato. L’arrivo di Alida Valli sul set è descritto in toni di una eterea ed evanescente visione:

«Tutt’attorno sugli argini, nella luce di un tramonto caldo di fine estate, si era assiepata la gente di Valeggio che aveva raggiunto il ponte con ogni mezzo appena diffusasi la notizia che era arrivata finalmente lei e che ci sarebbe stato il primo ciak per una scena fondamentale.»

Infine un’ultima precisazione sullo stile. Sembra che il regime “quasi” paraletterario di certe vicende contamini anche il registro dell’opera e le descrizioni comunque “romanzate” dell’universo produttivo, attoriale e spettacolare della cosiddetta “macchina cinema”. Basti citare ad esempio che, in un’impressione fugace di Luisa, una delle belle e giovani comparse del film, il regista Visconti viene descritto con: «due occhi che quando ti fissavano toglie­ vano il sole per metterti al centro dell’universo».

O ancora, si legga in tal senso, sia la descrizione dello stile recitativo di Alida Valli (che ha «nelle sue fibre, nella sua carne, nel­ le sue vene, un’ansia, una pena»); sia il passo dove l’attrice compare sul set:

«Passo lento, capo inclinato, sguardo rivolto verso il fiume Mincio. Alida Valli fissò il regista, Luchino Visconti, con occhi profondi e cupi. Dolore, disperazione, orgoglio calpestato, pensava l’attrice sentendosi già intimamente Livia Serpieri, la contessa travolta dall’amore per il bell’ufficiale austriaco, al punto di tradire il marito, i patrioti, la causa italiana, fino alla perdizione.»

Il titolo stesso del romanzo è assai evocativo: il film, tra le varie opzioni, avrebbe dovuto intitolarsi così, poi Visconti cambiò idea. L’uragano è quello che si abbatte con il circo del cinema sul paese e sui suoi abitanti nell’afa agostana di tanti anni fa. E proprio per questo il cerchio si chiude: non si può non pensare anche a una passione a puntate dei tempi perduti. A una storia lontana, già letta da qualche parte.

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