di Cesare Cioni
Il documentario cinematografico si presenta quasi sempre in una di due forme: quella in cui l’autore intende presentare una semplice documentazione della realtà, ritagliando per sé un ruolo di invisibile osservatore spassionato e neutrale (obiettivo in realtà impossibile, se non forse nel settore della divulgazione scientifica); e quella tutto sommato più onesta ma necessariamente di parte dell’opera « a tesi », se non addirittura militante, con la quale il regista si prefigge di dimostrare apertamente un punto di vista attraverso le immagini, spesso proposte in forma di inchiesta o reportage.
Nicolas Philibert, già autore di Essere e avere, documentarista che rivendica orgogliosamente il proprio ruolo di cineasta completo, con La maison de la Radio sceglie una terza strada. Non si nasconde, anzi: con il permesso della direzione generale la sua piccola troupe si è insediata per sei mesi nelle stanze e nei corridoi dell’edificio circolare del sedicesimo arrondissement progettato da Henry Bernard, una sorta di gigantesco alveare soprannominato, appunto, casa della radio, che ospita le emittenti radiofoniche nazionali francesi. I redattori, i presentatori e gli ospiti delle numerose trasmissioni che hanno accettato di essere ripresi erano ben consapevoli della sua presenza; ma Philibert si è astenuto dal sollecitarli o dal dirigerli in alcun modo, lasciando che svolgessero liberamente il proprio lavoro davanti alle telecamere, e raccogliendo ore e ore di filmato.
È nella ri-composizione del materiale, condensato in poco più di 100 minuti a seguire idealmente una giornata tipica della vita delle emittenti, che Philibert ha aggiunto il suo tocco personale. Data la natura del soggetto, ogni sequenza è scandita da voci e dialoghi – ma anziché da questi, è soprattutto attraverso l’intrecciarsi di sguardi, cenni d’intesa, sorrisi, rossori, ed esitazioni, che, dopo un primo momento di convulsa iperattività all’ingresso mattutino del personale delle emittenti, dai frammenti raccolti in un mosaico di sequenze, emergono, alternandosi e amalgamandosi, piccoli racconti e personaggi ben caratterizzati in pochi tratti.
Dalle redattrici che devono selezionare notizie originali e non ripetitive per i notiziari, all’équipe, alla ricerca del tono giusto in ogni frase di uno sceneggiato radiofonico; dal maestro di dizione che deve insegnare la corretta pronuncia tedesca a un coro francese, alla bionda speakerine dalla voce roca di una trasmissione per nottambuli; dalla timida insegnante di scuola in soggezione di fronte alle domande dell’anfitrione di un’importante trasmissione culturale, a un Umberto Eco in splendida forma, gattone sornione che in un elegante francese monopolizza l’attenzione degli ascoltatori, poco importa, in conclusione, sapere se e quanto il comportamento degli intervistati sia stato influenzato dalla presenza delle macchine da ripresa.
Il senso di questo bel film è invece dato da come queste piccole storie si compongono in un’affascinante riflessione cinematografica sul piacere del lavoro e l’orgoglio di professionisti alla ricerca dell’eccellenza nel quotidiano; e traducendo in immagini la vita e l’attualissima vitalità del medium che delle immagini sa fare a meno, La Maison de la Radio, implicitamente, riafferma l’importanza di un servizio pubblico che sappia davvero, e in senso letterale, dare una voce a tutte le istanze della società.