di Giacomo Rita e Andrea Cioni
Fuori Vista: Quali sono state le principali esperienze formative che l’hanno portata a lavorare come compositore per il cinema?
Marco Biscarini: Il corso estivo all’Accademia Chigiana, tenuto da Ennio Morricone e Sergio Miceli verso la metà degli anni Novanta, è stato il mio primo approccio alla musica per film. Ho frequentato il Dams Musica e ho fatto studi di composizione. Mi sono diplomato in musica jazz e in musica elettronica, per avere un panorama globale di quello che poteva essere il significato contemporaneo del comporre, ed effettivamente questo tipo di formazione rispecchia la figura professionale del compositore da film, che deve saper creare ma anche realizzare e produrre. Ero molto curioso, non mi bastava il linguaggio della composizione contemporanea del Novecento, volevo esplorare altri “generi” ed approcciarmi anche a registri diversi; così, ad esempio, ho lavorato come arrangiatore nel mondo del pop e per il festival di San Remo. Da tutto questo è nato poi il mio stile compositivo, che si è espresso al meglio nei film di Giorgio Diritti.
F.V. Ha avuto un maestro o una figura di riferimento in particolare durante il suo percorso formativo e professionale?
M.B. Di maestri ne ho avuti tanti, ma devo dire che Morricone, nel suo essere molto parco e misurato,è stato un esempio capace di sbloccare qualcosa in me. Mi ricordo bene questa sua frase: “per fare un pezzo basta un’idea. Tutto il resto è superfluo”; mi fece comprendere la necessità di “asciugare”. Facendo i conti con quelle che sono le richieste cinematografiche, soprattutto di un regista come Diritti, io penso proprio che la composizione sia soprattutto “sottrazione”, cioè quello che rimane di un’idea molto complessa, ridotta quasi all’essenziale. Credo che questa sia anche la risposta a cos’è la musica per il cinema oggi: deve essere presente ma mai invasiva rispetto all’immagine.
F.V. Qual è la differenza tra comporre una musica pensata fin dall’inizio come “applicata” (cioè creata in funzione di qualcos’altro) e una musica che nasce invece come “assoluta” (quindi fine a sé stessa e del tutto autonoma)?
M.B. Il punto di partenza è identico. All’inizio ti metti al lavoro per un film pensando semplicemente di scrivere musica, poi a un certo punto succede qualcosa di misterioso: il film ti chiede un azzardo, ti chiede di cambiare strada, di prendere un sentiero inesplorato. In quell’azzardo, che non avevi previsto e che non avresti mai fatto per una musica “assoluta”, c’è la “verità” della musica per film; bisogna mettersi sempre in gioco: il tuo linguaggio si deve evolvere nel film e trasformarsi, non cerchi mai delle conferme ma provi sempre a metterti in discussione. Credo che spesso questo lavoro venga spiegato male; si dice: “scrivi delle belle melodie, puoi fare musica per film”, ma non è quella la componente distintiva della musica per film. Faccio un esempio. Nell’estate del 2008, quando lavoravo a L’uomo che verrà, visitai il set e piombai in questa casa di campagna che stavano allestendo: tappezzavano tutto di fogli di giornale per dare l’idea dell’umidità di questi luoghi, come poteva essere una casa del 1944. Questo concetto di umidità mi colpì immediatamente, tanto che tornai subito in studio e mi venne l’idea delle gocce d’acqua, che accompagnano tutto il film. Ecco, in quel momento è scattato l’azzardo. Sulla sceneggiatura avevo già scritto delle idee musicali, ma lo spunto di queste gocce d’acqua, che sono gocce di umidità ma che diventano anche gocce di sangue quando c’è la strage, e assumono quindi un ruolo drammaturgico nel film, è stato la chiave che ha portato la colonna sonora de L’uomo che verrà a decollare.
F.V. E’ una soluzione quasi a cavallo tra musica in senso stretto e sound design.
M.B. Sì, e qui tornano i conti anche con la mia formazione elettronica. Mi piace molto lavorare con i suoni concreti, non solo come sfondo ma proprio come parte integrante della musica, come strumenti veri. In Un giorno devi andare ho lavorato sui respiri della donna, sul battito del cuore e sui suoni della natura, delle foglie e dell’acqua, mescolati all’orchestra d’archi. È una musica che trova la sua sorgente ovunque. La mia idea è proprio che il suono sia dappertutto: bisogna solo saperlo cercare e ingabbiarlo in una forma musicale. Sicuramente l’idea di musica “concreta” è una delle componenti più riconoscibili del mio stile; nei miei organici troverai sempre qualcosa che non torna, che non sai a cosa ricondurre, o che puoi ricondurre a suoni naturali.
F. V. Che ruolo ha la tecnologia in questo tipo di sperimentazione e in questo suo lavoro di ricerca?
M.B. Secondo me è molto importante, proprio per il mio intento di costante ricerca del suono. Un regista come Diritti cerca sempre il suono giusto. Le sue domande sono del tipo: “qual è il suono di una bambina muta che assiste alla guerra?”. Su questa base la tecnologia è fondamentale, perché a volte può non bastare un’idea musicale tradizionale.
F.V. Ne L’uomo che verrà la risposta a quella domanda è stata l’uso delle voci?
M.B. E’ stata quella che io chiamo, per citare Barry Lindon, “fortuna e sfortuna di un giovane compositore”. Non si riusciva a dar voce a questi bambini, non c’era un’idea musicale che Diritti sposasse riguardo alla guerra vissuta dal loro punto di vista. Vi svelo il colpo di fortuna. Una notte, vagando per Bologna, mi fermo alla piadineria Volturno: ci sono due tizi che scherzano e fanno: “Eh! Oh!”. Vedo che fanno questi versi e mi viene l’illuminazione: “questi sono i bambini che giocano alla guerra!”. E quegli urli potevano diventare allo stesso tempo gioco e dramma: infatti accompagnano una scena spaventosa dove sembra che i bambini vengano fucilati, mentre invece in un’altra scena rappresentano un elemento giocoso. Anche questa è un’idea di natura non propriamente musicale: sono grida, fonemi. L’intuizione dei bambini urlanti ci ha permesso finalmente di svoltare, dopo tanti Giga di proposte rifiutate, perché, quando si parla di bambini uccisi in una strage, finire nel melò è sin troppo facile, basterebbero tre note sdolcinate.
F.V. Tuttavia, oltre che su queste soluzioni originali, la musica de L’uomo che verrà si basa anche su un’impostazione più tradizionale, che parte da uno spunto tematico legato a una ninna nanna.
M.B. Sì, la ninna nanna dell’Appennino. Queste sono le “fortune del giovane compositore”: avevo scritto il tema principale del film, in Re minore, e Giorgio se ne era innamorato subito, poi mi ha fatto sentire questa ninna nanna, Fà la nana, anch’essa in Re minore, e i due pezzi, misteriosamente, una volta montati insieme, galleggiavano perfettamente. Ho concepito questa musica modularmente, ad incastri che potessero essere smontati, e infatti la sinfonia finale è giocata proprio su questo.
F.V. Come avviene la scelta della strumentazione? Si basa su associazioni convenzionali?
M.B. No, sono sempre scelte molto mirate e calibrate. Ne L’uomo che verrà per esempio volevo un’orchestra quasi popolare, con sotto la fisarmonica. La viola in questo film è associata alla morte, perché ha un suono molto dolce, ma anche scuro, non squillante come un violino; per questo il tema è fatto con la viola. La scelta dei flauti barocchi stava a rappresentare l’infanzia. C’è un preciso lavoro di drammaturgia nelle scelte strumentali, non sono mai casuali.
F.V. Che ruolo ha avuto invece questo tipo di ricerca preliminare in un film come Il vento fa il suo giro?
M.B. C’è stata una ricerca relativa al mondo occitano, senza la pretesa di voler fare musica occitana. Lo dissi subito: farò una musica da camera con strumenti occitani.
F.V. In questi casi c’è anche il rischio di cadere in stereotipi troppo usurati.
M.B. Sì, assolutamente. Siamo sempre ai confini del didascalico. Perciò in questo film strumenti come ghironda, flauti, clarinetto e oboe sono usati in maniera quasi cameristica.
F.V. Verso la fine del film, quando la famiglia francese abbandona il paesino, si sente molto il contrasto tra questo tipo di strumentazione e le sonorità elettroniche.
M.B. Sì, è stato fortemente voluto. Andai in Val Maira a visitare quel paese in cui vivono in sette persone, con quella strada sullo strapiombo: quel posto mi dava una claustrofobia tremenda. Così creai queste texture elettroniche, che secondo me rappresentano bene quella sensazione. Anche in questo caso si tratta di un azzardo: è un azzardo mettere un’elettronica così spinta in un posto così poetico e alternarla al tema principale, che invece è dolcissimo.
F.V. Questo serviva a trasmettere il senso di straniamento vissuto dai personaggi del film?
M.B. Esatto. Infatti tutti i titoli di quei pezzi riguardano la negatività e l’incomunicabilità; tutto è legato al fallimento dell’integrazione: questo è il mondo poetico del film. Le richieste di Giorgio sono molto varie e difficili da interpretare. Nell’ultimo film (Un giorno devi andare) erano “la voce di Dio”, o “il suono del ventre di una donna che ha perso un bambino”. In questo caso, ad esempio, è stato fatto un lavoro sulle frequenze materne; sono tutti “giochi” che sviluppo e che non so come arrivino sulla pellicola, ma dal punto di vista compositivo sono dei motori di partenza.
F.V. Rispetto ai due film precedenti, in Un giorno devi andare gli strumenti tradizionali che prevalgono sono gli archi. A cosa sono associati?
M.B. All’idea di un suono “profondo”. In Un giorno devi andare si giocava molto sul rapporto tra l’interiorità della protagonista e questa immensa natura. Gli scenari sterminati del Rio delle Amazzoni, mostrati da quelle riprese aree, non reggevano un suono “povero”, e l’orchestra d’archi secondo me era la cosa più adatta a rendere quell’idea, per poi passare invece all’interiorità del personaggio, che era giocata su altri elementi, sempre legati ai suoni della natura.
F.V. Una cosa che contraddistingue le colonne sonore dei film di Diritti è il silenzio: la musica non è onnipresente e questo probabilmente è un fatto positivo, perché altrimenti forse il suo valore potrebbe risultarne svilito. Che ne pensa?
M.B. Su questo tema ci sono dei dibattiti: secondo me la forza del cinema di Giorgio è non abusare mai della musica, ma appoggiarsi alla musica. Lui cerca l’integrazione dentro la scena. Infatti uno dei più bei complimenti per noi è stato quello di un giornalista che ci ha detto che L’uomo che verrà è un film senza musica: il fatto che non si noti vuol dire che è perfettamente integrata. Il silenzio per Giorgio è importantissimo: la sua richiesta è che nasca tutto dal silenzio e si rapporti al silenzio; è sempre un punto di partenza ed ha un valore estetico fondamentale nel suo cinema.
F.V. Anche a livello strettamente musicale è una parte costitutiva dei vostri brani, che sono ricchissimi di pause e interruzioni.
M.B. Sì, proprio perché devono rapportarsi al silenzio, e questa è anche una delle cose più difficili: bisogna lavorare con dei piani dinamici delicatissimi e renderli poi percepibili.
F.V. Entrano in gioco anche le tecniche di registrazione.
M.B. Si, dal punto di vista tecnico non è semplice rendere un “4p” a livello cinematografico, su un sound molto potente e ad alta definizione. Giorgio vuole sempre questa delicatezza; poi c’è il momento in cui lascia libera la musica di esprimersi e di venire fuori, ma è sempre una conquista con lui.
F.V. E’ molto severo su questo?
M.B. Sì, sono delle lotte incredibili. Lui vuole sempre “asciugare”, mentre tu come musicista vorresti un po’ di più, ma credo che alla fine abbia ragione lui. Una scena emblematica è quella della strage in L’uomo che verrà. Io volevo entrare subito con il tema della morte, alla prima “smitragliata” dei tedeschi, e invece Diritti diceva: “aspettiamo, non sveliamo”. Così ci ha fatto creare questo pedale di 14 secondi, quanto era fisiologicamente possibile al coro trattenere il respiro. Questo ha fatto sì che nella scena il tema entri e poi venga “spazzato via” da una granata senza svilupparsi: come compositore questo mi addolora un po’, però la scena è bellissima, perché il tema entra proprio sugli occhi della Rohrwacher che sussulta di fronte ai primi spari. Quindi forse alla fine ha ragione il regista, bisogna dargliene atto.
F.V. Come si costruiscono e si influenzano a vicenda il ritmo della musica e quello delle immagini?
M.B. Vengono costruiti seguendo il ritmo del movimento di macchina e cercando di calcolare e creare “metronomi” all’interno della scena. Secondo me è emblematico il piano sequenza iniziale de L’uomo che verrà. Anche qui c’era un tema ben preciso e Giorgio non voleva mai farlo entrare; abbiamo registrato insieme a lui, suonando sulle immagini. Ci diceva: “aspetta, sta salendo le scale! Parti con qualcos’altro!”. Abbiamo sovrapposto le gocce d’acqua, un piano rhodes e una chitarra acustica, per ottenere un suono non connotato geograficamente o temporalmente, e rendere l’idea di un inizio “galleggiante”, a suggerire la sospensione, quasi a chiedere: chi è questo personaggio che sale le scale ed esplora la casa? Dove siamo? In che anno? Giorgio non voleva svelare niente della storia che si andava a raccontare.
F.V. Queste idee nascono già in sceneggiatura o solo quando iniziate a lavorare sul materiale visivo?
M.B. E’ un percorso che inizia già sulle suggestioni della sceneggiatura e poi subisce modificazioni notevoli. In questo mestiere ci vuole anche un po’ di tattica: se proponi sin da subito le idee giuste al regista lui te le scarterà, quindi all’inizio devi “dargli in pasto” della musica che lui boccerà. La cosa più faticosa per un regista è dire: “sì, mi piace”; lui lo vorrebbe dire soltanto il giorno della chiusura del mix. Quindi bisogna trasmettergli il sound che vuoi fare, però mandando avanti delle “prime linee” che verranno stroncate.
F.V. E’ successo che Diritti bocciasse qualche idea a cui eravate particolarmente affezionati e che abbiate dovuto ripensare a qualcosa di completamente diverso?
M.B. Sì, però molte volte riesco a far rientrare queste idee dalla “porta secondaria”. A volte i pezzi sono prematuri, magari perché il film non ha ancora espresso il massimo a livello di montaggio. Del resto Diritti è un regista che vuole lavorare parallelamente, quindi parliamo di una lavorazione di 10-12 mesi. Ad esempio per la scena del ballo di Un giorno devi andare abbiamo registrato la musica il giorno prima delle riprese in Brasile. In questo parallelismo ci sono continui ripensamenti. A volte il regista ti fa delle “sorprese”: cose che erano state bocciate le ritrovi nel montaggio definitivo.
F.V. Com’è il suo rapporto professionale con Daniele Furlati, co-autore delle musiche per i film di Diritti?
M.B. Il nostro è un rapporto di complementarietà, finalizzato ad ottenere la varietà e la completezza di suggestioni musicali richieste da Giorgio. Siamo due compositori autonomi che lavorano su idee comuni, nate dall’uno o dall’altro. Arriviamo con idee ben precise e poi ci lavoriamo su: io aggiungo delle cose alle sue e lui aggiunge delle cose alle mie.
F.V. C’è qualche cosa che non le abbiamo chiesto e di cui le piacerebbe parlare?
M.B. Ci terrei magari a dire che rappresentiamo un cinema “bolognese” in un ambiente “romano-centrico”. Nel nostro piccolo crediamo in un cinema “sincero” e senza compromessi. Un film parlato in dialetto o in portoghese può incassare di meno al botteghino, però crediamo in questo modo di operare. Nel nostro approccio al lavoro mettiamo veramente il 200%, anche a scapito del budget.
F.V. Cosa consiglierebbe a chi vorrebbe fare il suo mestiere?
M.B. A Rovigo tengo un corso di musica per film, si tratta di una laurea triennale in composizione; per fortuna qualcosa si sta muovendo anche a livello istituzionale. Consiglio da una parte di fare studi accademici, dall’altra di esplorare tutti i linguaggi possibili, senza inibizioni e “ideologie”. Ai miei allievi insegno soprattutto questo: non c’è un linguaggio sbagliato né un linguaggio “principe”, piuttosto ci sono delle idee che, giocate in un certo momento, possono creare il linguaggio giusto. Personalmente ho dovuto rivedere certi parametri; ad esempio Morricone ha sempre avuto la velleità di essere riconosciuto come compositore contemporaneo, ma io non ho questa ambizione: so di essere un compositore con il mio linguaggio e le mie idee, però se dovessi dire dove mi colloco non saprei farlo e neanche lo vorrei. E poi nell’ambiente della musica per film siamo tutti molto diversi, dei “mondi a parte”: si tratta di trovare il regista che si innamora di quel “mondo a parte” e lo vuole per i suoi film, come è successo a me con Giorgio. Inoltre nel cinema di oggi, o almeno nel tipo di cinema proposto da Diritti, che vuole lavorare parallelamente alla sceneggiatura e al materiale visivo, è importante avere uno studio in cui produrre immediatamente quello che serve. Io ho creato il mio studio per essere produttore di me stesso.