di Fabio Matteuzzi
Nel 2008, Dario Marzola ha realizzato Fuochi fatui, un film sperimentale di 35 minuti prodotto da Horizon. Il protagonista è un giovane architetto che soffre da una rara malattia che gli impedisce di distinguere i volti delle persone. Questa difficoltà, che gli impedisce anche di riconoscere i volti delle persone che ama, lo induce a nutrirsi di emozioni, di presenze incerte, di sensazioni che lo risospingono ai ricordi dell’infanzia.
La traduzione di questo tipo di cecità attraverso un racconto visivo è stato sicuramente uno stimolo forte che ha portato il regista a cercare difficili equilibri tra narrazione, visione e l’impossibilità di vedere. Tutto ciò ha portato a realizzare un mediometraggio in cui il rapporto tra emozioni, sensazioni, immagini, percezioni si lega a visualizzazioni incerte e parziali, grazie anche all’uso di primissimi piani, e infine a una consapevolezza della complessità sinestetica.
Dario Marzola deve avere pensato che il cinema possieda davvero una grande virtù: quella di permettere di trasformare più volte, di metamorfizzare, di fare cambiare di segno, giocando e facendo registicamente sul serio, la storia da raccontare. Tutto questo avvalendosi naturalmente delle opportunità offerte dal montaggio, dal punto di vista squisitamente tecnico.
Dopo avere lavorato alla realizzazione di Fuochi fatui decide di riutilizzare il materiale girato smembrandolo e ricomponendolo in tre possibili storie, che in Fuochi fatui erano intrecciate, pensate ed elaborate per rimandare le une alle altre, stimolando lo stesso spettatore a compiere parte di questo lavoro di connessione, e che ora acquistano una propria autonomia. Tornano a staccarsi dall’insieme in cui erano confluiti.
Così riprende in mano il materiale girato, e montato, un materiale che ha già una sua compiutezza consistente in un film apparentemente chiuso, in un progetto che ha visto una sua elaborazione, un suo sviluppo e una sua fine, per una nuova rielaborazione.
Un film, si potrebbe dire, non è mai concluso. In questo caso viene ripercorsa l’opportunità di dargli una nuova vita, soprattutto una vita differente. In questo caso non è solamente in gioco l’insoddisfazione del regista davanti alla propria realizzazione, l’istinto a cambiare ancora, a togliere, aggiungere, mutare, insomma perfezionare quello che fino a quel momento è stato fatto. C’è dell’altro, e questo altro è legato alle varianti narrative in gioco e al mutamento della struttura narrativa. Ritornare agli elementi narrativi del film appena compiuto per smembralo nuovamente e fare, con questi stessi elementi, tre cortometraggi differenti non vuole dire riscrivere tutto, ma offrire nuove opportunità alle storie narrate, ai personaggi stessi.
Forse in tutto questo è anche facile intravvedere il segno di una difficoltà, quella del regista che non riesce ad abbandonare le storie contenute nel film che lo ha impegnato. Storie che continuano a ossessionarlo, scelte scartate che rivendicano ancora una loro presenza, pretendono ancora attenzione. Il film è terminato ma c’è ancora di che essere insoddisfatti. Fuochi fatui, il film – da solo – non dà testimonianza a sufficienza di questi personaggi, dei loro sentimenti, delle loro evocazioni attraverso il tempo e lo spazio. Né, tantomeno, del rapporto artistico e creativo del regista con i suoi personaggi mediati e fatti vivere attraverso gli attori.
Marzola sente dunque l’esigenza di smontare il film da poco terminato per farne tre cortometraggi differenti che in parte seguono vicende degli stessi personaggi, riprendendo situazioni ma cambiando i rapporti tra i personaggi. Viaggio all’interno di una storia o di più storie, della possibilità di unirsi o di dividersi, dando più spazio a un aspetto o no. Viaggio all’interno di atti quotidiani che solo la superficialità può considerare “banali”. Atti che possono essere compiuti o non compiuti orientando così quello che segue. Viaggio anche all’interno del fare cinema. Cinema-laboratorio, elaborazione che porta in sé una vertigine: quella di non riuscire mai a liberarsi dei personaggi e delle storie di cui sono portatori e, per certi aspetti, vittime. Prima di qualsiasi considerazione critica, l’operazione in sé richiama immediatamente la difficoltà di quelle scelte registiche e drammaturgiche che comportano l’eliminazione di un insieme che comprende intenzione registica, costruzione narrativa riguardante le vicende dei personaggi e, quindi, drammaturgia.
Quindi, alla fine, non c’era un’unica storia da raccontare, ma scelte da operare. Forse c’era molto altro che poteva essere narrato o che poteva essere maggiormente sviluppato.
La forza e la labilità delle percezioni è un doppio aspetto in cui si dibattono i protagonisti dei tre cortometraggi. Siamo su una soglia incerta in cui alla forza delle percezioni è strettamente abbinata una debolezza che fa dubitare perfino di se stessi. Forse è proprio questo stesso filo conduttore che stimola e permette la rielaborazione filmica, il fatto che tutto, in fondo, sia basato sull’incertezza dei sensi, dei ricordi, sulla stranezza delle storie (quella delle formiche volanti che vanno a riprodursi e morire, ogni anno, su un colle, nei dintorni di Bologna), su immagini provenienti dall’infanzia, su immagini che stanno al confine tra realtà e fantasia, sull’impossibilità di vedere realmente, nel momento stesso in cui si osserva.
Il lavoro registico e quello di scrittura è allora anche quello di comprendere le connessioni e le fratture tra un corpus narrativo che permette unificazioni e distante spaziali e temporali. Quando storie diverse entrano a fare parte di un’unica storia perché parte di un vissuto contiguo, possono mantenere comunque una propria autonomia. Marzola ha lavorato proprio su questa connessione-scissione, su uno scorrimento narrativo che passa dall’unità alla segmentazione, e tuttavia pretende di fare parte di un insieme.
“Worn by time”, “Memorare” e “Lamia” – questi i titoli dei tre corti – posseggono qualcosa di questo insieme, eppure Marzola non li porta a intrecciarsi narrativamente tra loro, semmai – al massimo – a evocarsi l’un l’altro, mantenendo cioè la leggerezza e incertezza percettiva, piuttosto che la certezza narrativa o figurativa.
Worn by time
regia Dario Marzola
sceneggiatura Dario Marzola e Roberta Romagnoli
musica: Fabrizio Fontanot
prod. Alessandro Carroli
set designer: Francesco Gualdi
fotografia: Michele D’Attanasio, AIC
montaggio: Antonella Bianco
Horizon 2011, 14′ 31″
cast: Marco Continanza (Emanuele), Cristiana Raggi (Francesca), Tanino De Rosa (neurologo)
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Memorare
regia Dario Marzola
cast:
Davide Morale (Emmanuele bambino), Valentina Masi (madre), Marco Continanza (Emmanuele), Cristiana Raggi (Francesca), Neri Barocci (Giovanni bambino)
sceneggiatura: Dario Marzola
fotografia: Michele D’Attanasio
musica: Fabrizio Fontanot
montaggio Antonella Bianco, Dario Marzola
Horizon 2011 , 8′ 07″
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Lamia
regia Dario Marzola
cast
Cristiana Raggi (Lamia), Marco Continanza (Emmanuele), Anna Copernico (voce della vecchia), Marcello Moronesi (voce altro amante)
sceneggiatura Dario Marzola
fotografia: Michele D’Attanasio
Musica Fabrizio Fontanot
montaggio: Antonella Bianco, Dario Marzola
Horizon 2011, 10′ 46″