di Fabio Matteuzzi
Il documentario è una modalità cinematografica in cui facilmente il giornalismo può intrecciarsi con il cinema. La ricerca con la storia, il passato con il presente.
Elisa Mereghetti e Marco Mensa hanno realizzato, assieme alla giornalista ugandese Kevin Doris Ejon, un documentario su uno dei tanti argomenti drammatici del continente africano.
Come si può affrontare un insieme di fatti così drammatici come quelli che riguardano le violenze e le atrocità commesse dall’LRA (Lord’s Resistence Army) di Joseph Kony in un paese come l’Uganda guidato ormai dal 1989 da Yoweri Museveni? Attraverso le voci dei testimoni, attraverso i loro ricordi, fino a quando l’intensità delle testimonianze diventano troppo forti e dolorose ed è necessaria una pausa nel racconto. Saggiamente – potremo dire – gli autori scelgono questa strada, quella della riflessione, quella attraverso cui si deve e si vuole guardare al futuro cercando una possibile riconciliazione, cercando di andare oltre le violenze di anni, il rapimento di bambini e bambine facendone strumenti di morte o schiave sessuali. Una riflessione che non investe solo chi questi fatti li ha materialmente compiuti, che rimangono i grandi assenti, ma che investe una società che guarda con timore, sospetto e paura a quei bambini e a quelle bambine che hanno vissuto loro malgrado con i loro rapitori e che, riusciti a fuggire, sono riusciti a tornare nelle loro comunità, che tuttavia non sa nuovamente accoglierli.
Le domande che questo film si pone e ci pone sono antiche e attuali, non rivolte alle cause di tutto ciò che è accaduto, ma come dopo, le violenze, dopo l’odio, dopo le guerre, le persone possano e debbano ricominciare una vita comune. Quindi si parla del presente e del futuro, e ciò è valido per i capi di stato come di qualsiasi individuo di una società.
Kevin è anche un film al femminile. Non solo perché segue il percorso di una giovane giornalista africana, una delle pochissime persone ad avere incontrato Kony e ad averlo intervistato, ma anche perché molte voci che offrono la loro testimonianza di fatti accaduti nelle aree rurali sono di donne che sono state direttamente o indirettamente coinvolte. Le capacità e il coraggio della giovane giornalista ugandese si incrocia con le vicende delle donne e dei fatti da esse narrati. Come accennavo sopra, quando si raggiunge un apice nel racconto delle protagoniste, il film quasi si ritrae, lascia tempo allo spettatore per non essere pervaso troppo dalla tensione, la testimonianza si ferma, l’immagine mostra un campo vuoto, viene inserito uno iato temporale di attesa nell’intento che qualcosa si stemperi, che le parole affidate allo schermo provochino una riflessione o almeno che siano accolte, non immediatamente cancellate da altre.
Ora non è che con un film si possa riuscire a capire un continente come quello africano, magari neppure la realtà territoriale di cui si parla, ma senz’altro riusciamo a infilarci in una fessura che ci fa capire quanto terribili e fortemente intrecciate sono le problematiche dei paesi africani, quanto forte possa comunque essere il legame politico con il mondo occidentale, ma anche quanto necessaria la comprensione di drammatici fatti recenti e il loro superamento. La riconciliazione, evocata, attesa e tuttavia insoddisfacente perché le ferite rimangono comunque, è un passaggio politico e sociale a cui non si può rinunciare. Quello che comunque emerge è la testimonianza di chi è stato e di chi continua a essere vittima: vittime delle atrocità dell’LRA, ma vittime anche di una società che non ti accetta più. Il film segue dunque queste voci, queste testimonianze, questi sguardi in una calma spossata che desidererebbe un futuro, attraverso la presenza di Kevin Doris Ejon. Un’empatia mediata che non si trasforma in vertigine e non si riduce al distacco. Il film cerca un equilibrio dichiarandosi atto cinematografico e giornalistico comprendendo bene, tuttavia, che la vicinanza alle persone che raccontano parte delle loro vite, può arrivare solo fino a un certo punto, può essere un mezzo che a sua volta deve adeguarsi all’enormità di ciò che vuole raccontare.