Editoriale di Fabio Matteuzzi
Fuorivista è una rivista di cinema che rinasce dopo un’esperienza di breve durata sviluppatasi alla fine degli anni Novanta. Nata in ambito universitario sotto la guida di Ennio Castaldini, ne eredita l’attenzione allo studio cinematografico e ad approfondimenti interdisciplinari offrendo aperture a interventi di studenti e giovani laureati. L’attenzione alla fenomenologia cinematografica è uno degli aspetti inscritti in questa nascita.
Il titolo stesso trae origine dal concetto di Hors Vue come è stato definito in primo luogo da Alain Bergala. Con la definizione “fuori vista” viene portato in primo piano un aspetto, se vogliamo secondario, minimale, ma senz’altro curioso, interessante in quanto trascina con sé aspetti legati alle tematiche dello sguardo e della visione. Ricordiamo che con fuori vista si intende tutto ciò che, pur presente all’interno dell’inquadratura, è nascosto da un qualsiasi tipo di quinta. Un elemento, un soggetto, la cui presenza è data nonostante l’assenza dall’inquadratura, attraverso il rapporto che comunque il visibile instaura con essa. Il fuorivista rivela in tal modo un nascondimento più che una vera e propria assenza. Si tratta di un aspetto particolare, nel panorama complesso di ciò che è chiamato linguaggio cinematografico. Tuttavia è attraverso i particolari e i dettagli che si possono arrivare a cogliere, con un sapore diverso, i quadri d’insieme, così come le scelte stilistiche e l’elaborazione drammaturgica.
In questo numero non poteva dunque mancare l’attenzione al fuori vista. A questo proposito l’attenzione è caduta su un cineasta come Wong Kar-wai che più di ogni altro ha perseguito questa modalità espressiva in maniera tale da farne uno degli elementi fondanti della sua pratica registica. Fuorivista ha cadenza semestrale. Intende caratterizzarsi come un luogo aperto di ricerca, non soltanto dedicato (o coincidente) all’ambito universitario. Vuole confrontarsi con tutto ciò che rientra nel fare cinema oggi, sia per quanto riguarda la molteplicità delle modalità realizzative, sia per quanto riguarda i vari modi attraverso cui fruire immagini cinematografiche e multimediali. A questo proposito ci è sembrato necessario, già da tempo, avviare incontri per riflettere su questi temi con addetti ai lavori, ma rivolgendoci a un pubblico più ampio possibile, anche se, inevitabilmente, già sensibile ai nostri argomenti. L’attività avviata dal novembre 2006, di cui riportiamo testimonianza in questo numero (la tavola rotonda “Dire fare vedere il cinema in provincia”), è stato un momento attraverso cui abbiamo potuto constatare un interesse diffuso nei confronti delle tematiche produttive, distributive, dell’esercizio, e più in generale di tutti i vari aspetti della pratica cinematografica, con una particolare attenzione alla provincia italiana. Ci fa molto piacere, in queste pagine, abbinare la nostra tavola rotonda a un’iniziativa, per alcuni aspetti analoga, svolta dai Cahiers du cinéma apparsa nel dicembre 2006 (ringrazio vivamente il direttore dei Cahiers, Jean-Michel Frodon, per la disponibilità immediatamente offerta alla traduzione italiana) dedicata in particolare alla distribuzione. Un’opportunità per lanciare uno sguardo oltre i nostri confini, per potere cogliere affinità e differenze.
Fuorivista ritiene stimolante e necessario leggere il cinema anche attraverso altri ambiti della conoscenza, oltreché artistici. In tal modo si apre a percorsi che mutano prospettive o che ne presentano di differenti, magari non nuove in senso assoluto, ma non sufficientemente considerate o valorizzate. Il cinema contemporaneo testimonia l’essenza di una identità vacillante sotto i colpi di nuove tecnologie che hanno ormai mutato il terreno della comunicazione e della produzione cinematografica. A maggior ragione – con molta umiltà – ci rendiamo conto che i tradizionali strumenti critici hanno qualche difficoltà a dare conto di nuove contaminazioni e di una pratica cinematografica tentata da differenti modalità tecniche, fino alla distribuzione e fruizione di immagini prodotte al di fuori della pratica realizzativa strettamente cinematografica o televisiva. È necessario dunque essere disponibili a una concezione il più possibile aperta: il campo di indagine si sposta in continuazione, e mettere in gioco rapporti tra il cinema e tutte le altre forme di espressione e di conoscenza è in fondo una scelta necessaria per non restare in un ambito che rischia di rimanere troppo autoreferenziale, restando legati a un concetto di cinema ormai slegato dal presente.
Crediamo che contaminarsi sia una pratica privilegiata per essere pronti a cogliere qualcosa di insospettato oltre che per disporsi a una più ampia comprensione di qualsiasi oggetto di indagine. Se guardiamo invece all’aspetto più tradizionalmente cinematografico: intendiamo dare conto di una pari dignità anche a quegli aspetti del cinema che rimangono estranei al circuito (o sarebbe meglio dire ai circuiti?) del cinema commerciale, come i corti, il documentario, le tematiche inerenti la didattica, o il cinema che – pur rientrando appieno nelle forme del cinema della grande distribuzione – non riesce ad avvalersene, risultando fuori dal mercato e quindi evidenziando problemi di non poco conto. Per non parlare di tematiche ancora non pienamente sfruttate dalla critica cinematografica in tutte le sue possibili implicazioni: l’attenzione ai luoghi, ai paesaggi urbani e naturali, a cosa rimane dei luoghi dopo che un film ha catturato una porzione esistente del mondo rendendola nota come parte di una storia; infine l’attenzione alla drammaturgia dell’attore cinematografico, su cui siamo in ritardo se effettuiamo un paragone all’ambito teatrale.
L’interdisciplinarità non è cosa nuova. Tuttavia non può più essere intesa unicamente come l’applicazione di un tipo specifico di conoscenze (umanistiche o scientifiche che siano) a quello cinematografico, applicando quindi al cinema, all’immagine cinematografica e audiovisiva, ottica e digitale, una conoscenza e una pratica conoscitiva proveniente da altri settori o ambiti, ma chiedersi come il cinema stesso, nella sua evoluzione e nei suoi cambiamenti, ciò che in esso viene elaborato per essere mostrato, possa mobilitare pensieri e sguardi nati in altri territori e scambiare ed intrecciare con essi percorsi e riflessioni. Per citare una incisiva definizione di Georges Didi-Huberman (peraltro formulata all’intern di un ambito non cinematografico) “aprirsi all’interrogazione”. Un’altra ambizione di Fuorivista - senza dubbio la maggiore – è quella di volere rivolgersi non solo agli “addetti ai lavori” (critici, docenti, studenti), ma anche a tutti coloro che, per uno strano scherzo del destino, non amano solo vedere i film, ma anche pensare il cinema, o qualunque cosa esso sarà o si chiamerà in futuro