Un’esperienza del 2007
Comunicazione al Location Film Festival di Ischia 2007
di Nadia Gagliardi Coja e Maria Lida Di Iorio
“Per voi il cinema è spettacolo.
Per me è quasi una concezione del mondo.
Il cinema è portatore di movimento.
Il cinema svecchia la letteratura.
Il cinema demolisce l’estetica. il cinema è audacia.
Il cinema è un atleta.
Il cinema è diffusione di idee”
Vladimir Majakovskij
Il Movimento
Quando produciamo un’azione e ci muoviamo in maniera consapevole, e a maggior ragione quando ci muoviamo per conoscere il mondo, stiamo compiendo un’azione cinestetica, ossia un gesto di natura dinamica che si trasforma in sensazione provocata dal movimento stesso.
In greco kineo ‘muovere’ e aisthetikós che ha la ‘facoltà di sentire’ (aisthetikós radice condivisa con ‘estetico’).
Non è dunque un caso se, alla fine del XIX secolo – dopo un costante susseguirsi di scoperte tecniche e scientifiche prodotte da menti ingegnose (la famosa epoca del pre-cinema che vide Thomas Alva Edison ideare nel 1891 la macchina da presa “cinetograph”) – Auguste e Louis Lumière, il 13 febbraio 1895, brevettarono una macchina da presa di loro invenzione che era anche e soprattutto in grado di proiettare l’arte delle immagini in movimento e quindi di rivolgersi a un vasto pubblico. I due fratelli prescelsero ancora la definizione di “cinématographe” (termine già utilizzato da Leon Guillaume Bouldy) unendo la parola kinema -atos ‘movimento’ a grapho- ‘che scrive’, che ‘incide’.
Scrivere dunque con le immagini, per raccontare il movimento del mondo.
Cinestesia
L’evento cinestetico, dell’azione che diventa sensazione, si riflette sul “cinématographe”- con tutto l’impeto di quei primi anni – e realizza grazie all’invenzione stessa del mezzo di proiezione, il comportamento proiettivo del pensiero umano e dunque la capacità d’osservazione e immedesimazione.
Dal 1895 le pellicole dei film “muti” furono accompagnate da musiche al pianoforte o anche da partiture originali o voce recitante, fino al 1927, quando con la realizzazione del celebre “Il cantante di jazz” esplosero le applicazioni del sonoro con i dialoghi sincronizzati.
La nuova idea del secolo, in seguito più brevemente definita cinema, condivide con tutte le espressioni artistiche la capacità di stimolare la percezione ed è interessante notare la sua qualità di arte condivisibile da una pluralità di soggetti presenti alla stessa rappresentazione. Un’arte volta per definizione al collettivo, pur parlando all’individualità di ciascuno.
Il connubio tra visione e suono implica un più completo meccanismo proiettivo nello spettatore, anche se – film “muto” o film sonoro – l’intento creativo risponde alla medesima vocazione dell’artista, amplificare cioè le capacità percettive del fruitore. Anzi il film “muto”, negli anni della sua pienezza, si avvale di elementi gestuali enfatizzati e volti ad accrescere la reazione dello spettatore.
Questa ricerca del sentire insieme, definizione appropriata per il cinema, è metaforica sotto molti aspetti: tra chi osserva e chi propone, tra le correnti artistiche che si scambiano stimoli, tra i sensi stessi che vengono coinvolti dalla forza innovatrice di molteplici arti più il movimento, tra la musica e la voce degli artisti nei teatri dal vivo e l’avvento partecipativo del sonoro.
Visione e ascolto hanno saputo trovare le modalità di un confronto e di un’integrazione che arriva alle odierne concezioni, dove è impossibile configurare un film con la sola colonna sonora, mentre è determinante rivolgersi al cinema nella sua assoluta complessità, tra immersione e sollecitazione multifonica.
Pensiamo ad un poeta, che magari con un solo verso cerca di raggiungere quanti lo vorranno leggere o ascoltare. Salvatore Quasimodo nel 1945: “…l’urlo nero della madre”, un luttuoso riferimento allo strumento immaginario della voce.
Per illustrare la lirica del poeta proviamo a compararla al potente messaggio che Niccolò Dall’Arca (1460) intese trasmettere con le sue sculture di donne disperate dinanzi alla Deposizione del Cristo, una madre che contorce le braccia avanti a sé e la cui bocca è un elemento vuoto, un “urlo nero”.
L’impulso artistico affianca la percezione istintiva di un senso alle qualità di un senso diverso, un colore ad un’azione, una sensazione uditiva alla visione di un colore, come ad esempio accade nel romanzo dello scrittore Carlo Lucarelli, “Almost blue.”
Nel titolo già risiede una strana alleanza tra avverbio e colore. Il protagonista del libro – un genere che in Italia viene classificato “giallo”, curioso accostamento, più propriamente definito “noir”, altro colorato riferimento – è un ragazzo cieco che per farsi un’idea personale del mondo attribuisce a ciascuna voce o stato d’animo un colore, e mescola continuamente le sensazioni tra visioni (colori presunti) e suoni.
Il regista della trasposizione cinematografica, Alex Infascelli, incalza gli eventi drammatici con un’intensa sarabanda di musica giovanile (“Massimo Volume”) ascoltata dagli studenti nell’incessante movimento che si riversa sotto i portici e nelle strade della città universitaria di Bologna.
Intenzione dello scrittore Lucarelli e del regista è rappresentare il dono percettivo del ragazzo cieco, capace di esprimere i colori e soprattutto le sensazioni attraverso i suoni.
Sinestesia
“In termini linguistici, si parla di descrizione sinestesica quando per nominare un’esperienza percettiva tipica di un determinato organo di senso utilizziamo termini il cui referente è legato ad un diverso sistema sensoriale.”1)
La sinestesia delle arti (dal greco syn ‘insieme’ e aisthánestai ‘percepire’) si fa pensiero accogliendo le percezioni in una rielaborazione di fonti sensoriali, in “un procedimento retorico che consente di originare un’immagine vividamente inedita” 2), e in analogia con il fenomeno della cinestesia – il movimento corporeo che diventa sensazione – rimanda alle straordinarie potenzialità del “cinématographe”, il movimento stesso che diventa arte scritta sulla pellicola.
Quale migliore dimostrazione dell’opera di Luchino Visconti, che riflette le peculiarità pienamente sinestetiche “intese a creare quello spettacolo totale o totalizzante che non solo doveva riunire in sé tutte le altre arti divenendone la “summa”, ovvero la risultanza dell’armonica fusione dei mezzi tecnici propri del cinema del teatro e dell’opera lirica, ma meglio poteva soprattutto rispondere alla sua poetica.” 3)
La sinestesia fornisce alla conoscenza un’ampliamento del diapason della percezione, un’intenzione interdisciplinare e multidisciplinare sottesa, per cogliere dalle sensazioni le idee e riportare l’”indagine” ad una pluralità dei saperi. “Come dire che, mentre il progetto disciplinare distingue, privilegia, conserva, il programma multidisciplinare combina, solidarizza, demistifica.”4)
Le “arti in movimento” (nell’accezione specifica del termine performativo) e l’arte sinestetica del cinema in particolare contribuiscono ad elaborare una sorta di visualità alternativa della visione stessa, entrando nel merito degli altri sensi, affini o contrastanti, combinando il rapporto cinestetico tra immagine e azione, recependo l’espressione multiforme delle culture che si riversa costantemente nei sistemi interpretativi, a partire dalla visione soggettiva fino a quella dell’altro.
“L’interdisciplinarità non è cosa nuova. Tuttavia non può più essere intesa unicamente come l’applicazione di un tipo specifico di conoscenze (umanistiche o scientifiche) al metodo cinematografico, applicando quindi al cinema, all’immagine cinematografica e audiovisiva, ottica e digitale, una conoscenza e una pratica conoscitiva proveniente da altri settori o ambiti, ed è piuttosto un chiedersi come il cinema stesso, nella sua evoluzione e nei suoi cambiamenti, ciò che in esso viene elaborato per essere mostrato, possa mobilitare pensieri e sguardi nati in altri territori e scambiare ed intrecciare con essi percorsi e riflessioni. Per citare un’incisiva definizione di Georges Didi-Huberman “aprirsi all’interrogazione.”5)
Cinestesie e Cineturismo
Il cinema, metafora della proiezione dei nostri pensieri in uno specchio, è in grado di rappresentare un territorio privilegiato dove confrontarsi. Un territorio simbolico ma anche concretamente sperimentabile, raggiungibile. Le megalopoli, aggredite nel loro habitat naturale ormai “senza le lucciole” di Pier Paolo Pasolini, le “Mani sulla città” della speculazione edilizia di Francesco Rosi, le abissali profondità dei grattacieli di “un’archeologia del futuro”6) in “Blade Runner” così come i piccoli villaggi paesani con l’asino, le pietre e la meravigliosa creatura, Gina Lollobrigida, che sazia gli occhi universali di Vittorio De Sica.
“Fare un film è come fare un viaggio. Una ricerca in se stessi e negli altri. In ogni direzione in cui va la vita” (Federico Fellini).
Con Fellini possiamo afferrare il segreto di “Roma”: la sua grandezza quando nel costruire la nuova arteria della metropolitana gli operai scoprono gli ennesimi affreschi e la sua caducità, quando l’aria e il sole penetrano sottoterra e dinanzi alla vista appassionata del regista e degli spettatori, svanisce in pochi attimi una ricchezza inestimabile.
Con Woody Allen riusciamo a concepire lo spazio urbano americano, la grandezza e complessità di “Manhattan”, al contempo, a confrontare gli ambiti angusti degli “Interiors”.
L’azione del cinema, il trasfondere soggetto, realizzazione, drammaturgia, partitura musicale avviene nel contesto di uno scenario grandioso, teorico e pratico, frutto della relazione tra gli esseri umani e il mondo naturale, uno scenario in trasformazione. Non una semplice moltitudine di paesaggi, ma il paesaggio della nostra esistenza, in Finlandia con Aki Kaurismaki, in Giappone con Akira Kurosawa e perfino in sogno con “La Città delle Donne” che tanto assomiglia ai luna park di Rimini e – alla fine del mondo – con la Statua della Libertà semiseppellita dalla sabbia (ascoltiamo il commento musicale).
Territorio, paesaggio, scenario.
Non fondali, trompe l’oeil posti nella storia di un racconto cinematografico, al contrario, valore essenziale a somiglianza della vita. Scenario che non è semplicemente al di fuori, piuttosto scenario dell’anima, nel quale il contesto naturale e sociale determina l’esistente e le azioni e i pensieri si svolgono sulla preziosa pellicola o mediante gli attuali supporti digitali.
Il mondo intorno scorre nelle vene dei personaggi, si trasforma nel progredire degli eventi, incide con la ciclicità delle “Onde del destino” o si rende assoluto protagonista con “Deserto Rosso” di Antonioni. La forza conturbante di una tempesta diventa “La tempesta perfetta” e la drammaticità di scogliere a picco sull’oceano, sovrastate da muri di cielo e d’acqua, esprime meglio d’ogni ragionamento, il peso di un’esistenza afona per una giovane donna costretta a vivere nelle colonie inglesi in “Lezioni di Piano”.
Un luogo nodale per la storia dell’umanità – la Sicilia – si riappropria del suo senso di bellezza e di essenza morale agli occhi del pubblico, grazie all’intenso rapporto di coesione e condivisione stabilito tra chi ha ideato Salvo Montalbano (Andrea Camilleri), chi gli ha dato le energie (Luca Zingaretti) e chi ha ricreato con la scelta oculata delle location e del casting (il regista Alberto Sironi e la troupe al completo) il fascino particolare, introverso e sfacciato insieme, delle terre siciliane.
Quando un film, un audiovisivo, un importante sceneggiato televisivo lascia una traccia – la Roma sconosciuta de “Il Segno del Comando”, Gino Cervi a braccetto di Rina Morelli in Place de Vendome, la serie di documentari di rilievo antropologico “La mia India” di Roberto Rossellini; i film d’animazione come “Lillo e Stich” nel quadro della cultura hawaiana; i contenuti aggiuntivi dei DVD di produzioni cinematografiche quali “The Lord of the Rings”, riuscitissimo case-history di Cineturismo – stiamo sempre impadronendoci delle mille sfaccettature intese a conoscere il mondo in cui viviamo e anche mondi inesistenti o futuri.
Nel 1895, l’anno del brevetto dei fratelli Lumière, un giovane scrittore di ventinove anni, H. G. Wells, scrisse un romanzo fantastico in cui proponeva un’idea che era già circolata in scritti precedenti d’altri autori e che H. G. Wells consolidò intorno ad un fulcro di maggiore impatto. Una macchina del tempo (nell’era delle macchine) capace di viaggiare avanti e indietro nelle due dimensioni. La sua trovata ebbe un’enorme successo in letteratura, nel cinema e nelle arti, incidendo sul suo secolo e sul nostro.
L’immaginario, sostenuto dalle nuove acquisizioni della tecnica, presagì l’estremo sviluppo della figura del viaggiatore e anticipò i viaggi nell’altrove e nelle dimensioni temporali.
“…I viaggi riformano i nostri giudizi – facendoci provare le molteplici varietà della natura, c’insegnano a conoscere che cosa è buono – permettendoci di osservare gli atteggiamenti e le arti degli uomini, ci consentono di farci un’idea di ciò che è sincero – e mostrandoci le differenze degli umori e dei modi di vita, ci inducono a guardarci dentro e a formarci i nostri”. Laurence Sterne in “The prodigal Son“.
In passato, concepire i percorsi per raggiungere mete rinomate – aldilà delle necessità pratiche o tristemente imposte per chi era magari costretto ad emigrare – avveniva con la mediazione della scrittura, del libro, del racconto diretto, oppure con le illustrazioni pittoriche e infine con la fotografia, straordinaria testimonianza storico-artistico.
Questi spostamenti prevedevano, in generale, risorse economiche non certo a disposizione di tutte le classi sociali. Noi sappiamo quindi che dal punto di vista del viaggio di piacere e di conoscenza, a pochi era concessa tale opportunità.
L’avvento del cinema, con il suo senso di realtà che addirittura fece fuggire il pubblico alle prime immagini di un treno in corsa, dispiega a una nuova platea – e per questo il cinema nasce in qualità di arte popolare – un ventaglio d’informazioni live che tuttora opera in maniera affine e riesce a raggiungerci in termini di emozione.
La conoscenza di luoghi naturalistici straordinari “La Foresta che vive” o “Kilimangiaro” diventa soggetto d’arte per i documentaristi e in egual misura vengono testimoniate le battaglie di democrazia e cambiamento sociale nel corso degli eventi. La tecnica cinematografia esprime nella sua pienezza l’evidenza dello scenario, intanto che il paesaggio e i territori si trasformano in relazione alle scelte produttive e architettoniche dell’uomo.
Il valore di queste scelte, adeguate o meno, non riguarda in particolare gli ambientalisti o quanti contribuiscono fattivamente a conservare un habitat equilibrato e capace d’autoguarigione, piuttosto una riflessione importante sulla bellezza e la felicità, argomenti intrinsechi alla ricerca artistica e all’arte cinematografica. Tra queste riflessioni epistemologiche si muove il “fare cinema” o “fare audiovisivi” e il territorio, lussureggiante o inquinato, apocalittico o rassicurante, permea l’azione scenica e la struttura della storia, in maniera intima, profonda.
La qualità della funzione creativa, assommata alla qualità dei luoghi prescelti, alla fibra dei personaggi evocati dagli attori, al contesto complessivo richiama il pubblico al coinvolgimento, quasi come davanti al treno a vapore alle origini della cinematografia. La capacità di illuminare, fotografare, riprendere le scene – il mezzo – coincide con l’opera stessa, determinandone il taglio e l’effetto empatico, in stretta connessione con l’immersione nell’ascolto sonoro.
L’osservazione dunque dello scenario/paesaggio incide sulla percezione dello spettatore.
Il racconto, per quanto drammatico, sulla misera esistenza degli operai italiani nelle miniere di carbone in Belgio, può indurre in seguito a voler conoscere da vicino le terre del Belgio. I Sassi di Matera, frutto della lungimirante capacità di chi li costruì per difendersi dal freddo e dal caldo, diventano Patrimonio dell’Unesco e attraggono l’interesse del cinema e implicitamente delle persone coinvolte nel processo della cultura cinematografica.
La classe sociale abbiente – che nel passato compiva il suo viaggio iniziatico e culturale (Il “Grand Tour”, termine che appare per la prima volta nel 1670 all’interno del “Voyage of Italy, or a complete Journey through Italy” dell’inglese Richard Lassels) diventa nel XXI secolo una classe turistica estesa, numericamente significativa.
Sappiamo che il cosiddetto “turismo consapevole” sta avanzando le sue ragioni in tutti i paesi industrialmente evoluti. Ed è certo meno pericoloso e più piacevole andare in vacanza lontano da discariche abusive e piani regolatori scombinati, eppure, il pubblico del cinematografo, degli audiovisivi e dei multimedia, può scegliere “Puerto Escondito” o Los Angeles indipendentemente dalla criticità dei luoghi.
Lo scenario non è la bellezza o la felicità in sé, ma la riflessione su queste tematiche degne della “Storia Infinita” e perciò anche sul conflitto, sulla depauperazione o semplicemente sul concetto di solitudine di una “Gita al Faro”.
Il “location placement di stampo naturale” che avviene in virtù dell’esistenza dei fenomeni è l’antesignano del “location placement” (coniato dal Marketing turistico) quello che, se soltanto l’1% del pubblico7) del cinematografo ha scelto la Nuova Zelanda dopo aver visto “The Lord of the Rings”, determina un fatturato davvero sostanzioso, contribuendo ai guadagni delle Majors ed anche ai costi dei ticket ospedalieri, farmaceutici, scolastici della realtà nazionale neozelandese.
Nell’entrare nel merito di un contesto tipicamente italiano appare evidente che la “Festa del Cinema di Roma” ha voluto riportare in auge i simboli del grande cinema italiano, da Via Veneto alla Fontana di Trevi, a testimonianza della “Dolce Vita” e rivalutando un rapporto essenziale tra cinema e territorio. La riscoperta dei luoghi permette di arricchire le emozioni, i particolari e i retroscena che hanno caratterizzato molte opere filmiche, rendendo Roma capitale del cinema e Cinecittà, la più grande sede produttiva in ambito cinematografico europeo.
In questa chiave interpretativa, il Cineturismo – coniugando cinema e turismo culturale – rielabora dialetticamente il rapporto tra cinema e spettatore, tra cinema e territorio con una rigenerante capacità interdisciplinare affiancata all’intelligenza creativa e ne afferma la valenza di movimento socio-culturale, rendendo lo scenario parte attiva del ragionamento cinematografico.
Dunque il Cineturismo movimento socio-culturale che grazie alla reinterpretazione e alla valorizzazione del territorio, muove lungo un asse vivo, emozionale che guarda alla materia del cinema, crea spazi in cui riflettere, percorsi dove l’esperienza percettiva diventa immagine filmica e lascia pienamente emergere radici e memorie dei luoghi.